Capisco la relativizzazione della sconfitta come elemento consolatorio, ma il troppo stroppia.
Ci riflettevo, leggendo ieri un articolo graffiante di Gian Antonio Stella (con Sergio Rizzo è stato autore de “La Casta” che diede la stura a fenomeni nefasti di antipolitica e antiparlamentarismo) sul Corriere della Sera.
Il giornalista la piglia alla distante, ricordando con ironia il calcio come esempio e non a caso cita all’inizio il clamoroso risultato di una partita di calcio fra Samoa e Australia, finito con un 31-o per gli australiani e il CT degli isolani commentò “Di più non potevano fare”.
L’incipit serve a fagiolo per aggiungere: “Perché mai stupirsi dunque se Luciano Spalletti ha spiegato che no, se proprio non gli fossero state imposte, lui non avrebbe dato le dimissioni per la disastrosa sconfitta per 3-0 in Norvegia dopo una serie di gare mediocri o pessime? O se Maurizio Landini, a chi gli chiedeva se avesse ipotizzato di dare le dimissioni dopo la botta referendaria, ha risposto testuale «non ci penso proprio»? Seguito a ruota, ahi ahi, da Elly Schlein, Giuseppe Conte, Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli soddisfatti di quel 30% preso insieme 20 punti sotto il quorum, sventolando battaglie criticate non da muscolari manganellatori fascisti ma da uomini di salda storia progressista come Pietro Ichino e Tito Boeri?”.
In effetti il rischio del ridicolo esiste. Capisco bene una logica difensiva rispetto alla scelta di arrischiare i referendum, così come di sta la necessità di caricare le truppe a fronte di un’oggettiva sconfitta, ma esistono logiche di buonsenso e di chiarezza, cui vedo difficile sfuggire.
Sulla questione dell’autocritica bisogna intendersi.
Faccio un passo indietro. La parola “autocritica” deriva dall’unione di due elementi: ”auto-”: un prefisso di origine greca (αὐτός, autós), che significa “sé stesso”. Mentre “critica” dal greco κριτική (τέχνη) (kritikḗ [téchnē]), cioè “arte del giudicare”, a sua volta da κρίνω (krínō), “giudicare”, “separare”. Quindi, autocritica significa letteralmente “giudizio su sé stessi”.
La versione buona mi sembra riassunta da una frasetta di Edgard Morin: “Sono sempre più convinto che l’autocritica sia il miglior aiuto contro l’illusione egocentrica e per potersi aprire agli altri”.
Più complesso Karl Popper: “Dobbiamo imparare che l’autocritica è la cosa migliore; e che la critica reciproca, che è sempre necessaria, e che ci serve per imparare l’autocritica, è quasi altrettanto un bene”.
Autocritica è un termine - e sono abbastanza vecchio da averne memoria - che è stato utilizzato frequentemente in contesti marxisti e comunisti, dove l’“autocritica” veniva incoraggiata o richiesta ai membri del partito per riconoscere i propri errori ideologici o pratici e correggerli.
Lapidario su questo Stella: “Grazie a Dio son passati i tempi in cui a sinistra qualcuno era chiamato, come alla scuola di partito delle Frattocchie, a fare la «kista» («maieutica dell’autocritica non socratica» centrata «nell’autoconfessione spietata, nel narrare la propria vita al negativo, attraverso uno schermo autocritico scatenato per cui si scovavano, nella mente e nel cuore, le deviazioni più balorde...») descritta da Maria Antonietta Macciocchi che ci era passata. Né alcuno chiede umiliazioni tipo quella pretesa nel 1920 da certi operai d’una fabbrica sovietica a Tula: «Io sottoscritto, cane puzzolente e criminale, mi pento...». Ma un po’ di autocritica? È troppo?”.
Insomma “modus in rebus” in questa situazione ci starebbe e farebbe da contraltare agli eccessi di trionfalismo del centrodestra.