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12 giu 2025

L’autocritica

di Luciano Caveri

Capisco la relativizzazione della sconfitta come elemento consolatorio, ma il troppo stroppia.

Ci riflettevo, leggendo ieri un articolo graffiante di Gian Antonio Stella (con Sergio Rizzo è stato autore de “La Casta” che diede la stura a fenomeni nefasti di antipolitica e antiparlamentarismo) sul Corriere della Sera.

Il giornalista la piglia alla distante, ricordando con ironia il calcio come esempio e non a caso cita all’inizio il clamoroso risultato di una partita di calcio fra Samoa e Australia, finito con un 31-o per gli australiani e il CT degli isolani commentò “Di più non potevano fare”.

L’incipit serve a fagiolo per aggiungere: “Perché mai stupirsi dunque se Luciano Spalletti ha spiegato che no, se proprio non gli fossero state imposte, lui non avrebbe dato le dimissioni per la disastrosa sconfitta per 3-0 in Norvegia dopo una serie di gare mediocri o pessime? O se Maurizio Landini, a chi gli chiedeva se avesse ipotizzato di dare le dimissioni dopo la botta referendaria, ha risposto testuale «non ci penso proprio»? Seguito a ruota, ahi ahi, da Elly Schlein, Giuseppe Conte, Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli soddisfatti di quel 30% preso insieme 20 punti sotto il quorum, sventolando battaglie criticate non da muscolari manganellatori fascisti ma da uomini di salda storia progressista come Pietro Ichino e Tito Boeri?”.

In effetti il rischio del ridicolo esiste. Capisco bene una logica difensiva rispetto alla scelta di arrischiare i referendum, così come di sta la necessità di caricare le truppe a fronte di un’oggettiva sconfitta, ma esistono logiche di buonsenso e di chiarezza, cui vedo difficile sfuggire.

Sulla questione dell’autocritica bisogna intendersi.

Faccio un passo indietro. La parola “autocritica” deriva dall’unione di due elementi: ”auto-”: un prefisso di origine greca (αὐτός, autós), che significa “sé stesso”. Mentre “critica” dal greco κριτική (τέχνη) (kritikḗ [téchnē]), cioè “arte del giudicare”, a sua volta da κρίνω (krínō), “giudicare”, “separare”. Quindi, autocritica significa letteralmente “giudizio su sé stessi”.

La versione buona mi sembra riassunta da una frasetta di Edgard Morin: “Sono sempre più convinto che l’autocritica sia il miglior aiuto contro l’illusione egocentrica e per potersi aprire agli altri”.

Più complesso Karl Popper: “Dobbiamo imparare che l’autocritica è la cosa migliore; e che la critica reciproca, che è sempre necessaria, e che ci serve per imparare l’autocritica, è quasi altrettanto un bene”.

Autocritica è un termine - e sono abbastanza vecchio da averne memoria - che è stato utilizzato frequentemente in contesti marxisti e comunisti, dove l’“autocritica” veniva incoraggiata o richiesta ai membri del partito per riconoscere i propri errori ideologici o pratici e correggerli.

Lapidario su questo Stella: “Grazie a Dio son passati i tempi in cui a sinistra qualcuno era chiamato, come alla scuola di partito delle Frattocchie, a fare la «kista» («maieutica dell’autocritica non socratica» centrata «nell’autoconfessione spietata, nel narrare la propria vita al negativo, attraverso uno schermo autocritico scatenato per cui si scovavano, nella mente e nel cuore, le deviazioni più balorde...») descritta da Maria Antonietta Macciocchi che ci era passata. Né alcuno chiede umiliazioni tipo quella pretesa nel 1920 da certi operai d’una fabbrica sovietica a Tula: «Io sottoscritto, cane puzzolente e criminale, mi pento...». Ma un po’ di autocritica? È troppo?”.

Insomma “modus in rebus” in questa situazione ci starebbe e farebbe da contraltare agli eccessi di trionfalismo del centrodestra.