Ho preso molti aerei nella mia vita. Mi ha sempre affascinato il fatto che ci consentano non solo di viaggiare, che è un’ovvia banalità, ma anche di raggiungere quote dalle quali si superano le nuvole, anche se burrascose, e si scoprono il cielo azzurro ed il sole.
Volare alto. È una cosa che si dice. Trovo che sia un giusto ammaestramento per qualunque cosa si faccia.
L’espressione ha un’origine, di cui dirò, che deriva dalla nostra condizione umana. Non avendo le ali, ma non a caso le creature angeliche ce l’hanno, non possiamo che osservare con invidia la straordinaria fortuna degli uccelli di librarsi nell’aria.
Infatti, “volare alto” deriva da un’immagine metaforica molto antica, legata al volo degli uccelli, in particolare dell’aquila, simbolo di altezza, forza, ma anche visione ampia e nobiltà d’intenti e non a caso figura anche nell’araldica.
In senso figurato, “volare alto” significa avere grandi ambizioni, pensieri elevati, aspirazioni nobili o ragionamenti profondi. Indica spesso anche chi non si accontenta del banale o non si ferma alle cose superficiali.
L’espressione ha radici antiche, anche classiche: Platone, ad esempio, usa il volo come metafora dell’anima che si eleva verso il mondo delle idee.
Mentre Orazio, nella sua celebre Ars Poetica, parla di chi scrive poesia “alti volat”, cioè “vola in alto”, riferendosi a uno stile elevato.
Per contro, in ambito moderno, “volare basso” è spesso l’opposto: chi si tiene prudente, chi si accontenta o non sogna troppo.
Non a caso, in un recente pomeriggio, guardavo due aquile che disegnavano nel cielo traiettorie fra loro che avevano un che di giocoso, specie quando sembravano lasciarsi andare, volteggiando, senza battiti di ali.
Volare alto. Condizione che dovrebbe applicarsi anche in politica. Non è sempre facile farlo. Talvolta ci si trova invischiati con chi striscia piuttosto che volare. Esistono rivalità, camarille, giochini che sono grevi e diventano come dei sassi messi nelle tasche, che rendono pesanti le situazioni.
Quando ne parlo, c’è qualcuno che si stupisce, dicendomi che dopo i decenni di esperienza nel ramo, la mia è un’inutile ingenuità e rischio di far la figura di una Cenerentola nel Paese delle Meraviglie.
Eppure, trovo che bisognerebbe sforzarsi di volare alto e bisogna reagire a chi ti spinge verso il basso nella polvere o peggio a venir inghiottito da certe sabbie mobili.
Le condizioni di un dibattito politico civile non sono facili. Oggi, come non mai in questa epoca di populismo spicciolo, trionfa una dialettica rude e spesso volgare. Non c’è un dialogo, ma lo scontro sembra essere la cifra cui sottostare. Si crea, anche su questioni molto concrete, una sorta di confronto senza ascolto reciproco. Non ci si presenta a quella che un tempo veniva chiamata l’opinione pubblica, ma ai propri tifosi. Quindi i contenuti vanno a farsi benedire.
La ricerca della sintesi, che significa un punto di equilibrio da raggiungere anche di fronte a posizioni distanti in partenza, non interessa nella foga di una politica in perenne campagna elettorale, spesso influenzata dall’ossessione dei sondaggi.
Il comune denominatore viene vissuto come un compromesso al ribasso. Persino il rispetto reciproco sembra essere considerato compromettente e c’è chi vive con la spada perennemente sguainata.
Brutta storia!