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12 dic 2024

Le parole tormentone

di Luciano Caveri

“Tormentone” è una parola di successo, ormai normale nel suo uso e non solo per le hit estive, diffusa a partire degli anni Ottanta. Oggi la si usa, infatti, nei modi più disparati, ma a me oggi interessa segnalarla nel senso di una specie di tic che si diffonde nell’impiego o persino nell’abuso nella quotidianità.

Svelo subito le carte, venendo dalla generazione che era assillata e ci rideva dal famoso “cioè”, che era diventato una specie di simbolo. Ricordo assemblee studentesche in cui era un profluvio della povera congiunzione esplicativa, poi in buona parte scomparsa per il logoramento cui venne sottoposta.

Ebbene, segnalo e annuncio il dilagare di un nuovo modo di dire che è “da questo punto di vista”, che inspiegabilmente noto diffondersi nella conversazione e nei discorsi, compresi quelli ufficiali. Io stesso – preso dal virus – mi accorgo di adoperarlo. Ne segnalo l’evidente inutilità in certi contesti.

Precisi come all’inizio fosse niente altro che una locuzione metaforica che deriva dall’idea di “punto di vista” come prospettiva o angolazione da cui si osserva una situazione. L’origine è strettamente legata al linguaggio visivo e spaziale, in cui il già citato “punto di vista” si riferisce alla posizione fisica o mentale da cui si guarda qualcosa. Poi è volata in un uso ossessivo e rischia grosso.

Sul tormentone tutti noi potremmo dire qualcosa di più. Penso a come il Fantozzi di Paolo Villaggio si usò nel mio slang giovanile, a espressioni derivanti da slogan pubblicitari (Carosello ne ha incise in me in profondità), a certi anglicismi che sono come la peste, a ritornelli musicali di canzoni estive che si fissano nella mente e sgorgano nelle parole.

Oggi sul Web viaggiano catene di Sant’Antonio di espressioni virali, soprattutto tra i giovani, e va per la maggiore il meme. Per chi non sapesse di che cosa si tratta spiego che un meme è un’idea, un’immagine, una frase o un comportamento che si diffonde rapidamente attraverso soprattutto online. I meme spesso hanno un significato umoristico o ironico e si adattano facilmente a diverse situazioni, venendo modificati o reinterpretati dagli utenti. Sono creazioni semplici e comprensibili, riflettono emozioni comuni, sono riutilizzabili e viaggiano velocemente sui social e fanno tendenza. Da lì si diffondono modi di dire, slogan, espressioni, battute e altro ancora in un passaparola efficace e molto incidente.

Non so, alla fine, se si debba troppo indugiare in moralismi. Quel che è certo è che bisogna prestare attenzione alle parole. Lo diceva il grande linguista Tullio De Mauro: “Le parole circondano il presente, ogni istante del nostro presente. Ci accompagnano quando parliamo con altri o leggiamo e scriviamo, ma anche nel silenzio e perfino nei sogni. E dal presente più immediato si distendono verso il passato e si protendono verso il futuro, coinvolgendo anche pensieri, volontà e coscienze umane”.

Ecco perché aborrisco certi tormentoni. Tipo “E niente…” con cui alcuni esordiscono nei loro interventi e verrebbe voglia di dire: e allora stai zitto! Oppure il terribile “Ma anche no…”, per non dire del tragico “piuttosto che…” o l’abuso del “quant’altro”. Comico il binomio “assolutamente sì” e “assolutamente no”, che ricorda – lo vediamo sui treni – il ben noto “è severamente vietato sporgersi”, come Italia risultasse scontato dover aggiungere un avverbio.

Ma il peggio è l’uso ormai diffuso e direi sdoganato del “quelle che sono” o “quello che è”, che appesantiscono certi interventi sino allo sfinimento. L’aspetto grave è proprio quello diffusivo di un vero e proprio stravolgimento delle regole. E lo dico anzitutto a me stesso, specie dopo aver letto che l’Italia è fanalino di coda nelle competenze sulla lingua con un’alfabetizzazione persino calante almeno nel comprendonio dei testi scritti.

A questo proposito un ultimo appello: chi non è capace a parlare in pubblico, si attenga a testi scritti. Ogni tanto sento cose dell’altro mondo e mi spiace per l’oratore, spesso per sua fortuna inconsapevole e perciò, almeno personalmente, ne esce indenne.