In questo periodo non le vedo, ma nelle altre stagioni al mattino e alla sera - quando arrivo e me ne vado dal parcheggio al centro di Aosta - il cielo è pieno di quelle che penso siano cornacchie.
Uno stormo enorme di “Corvus corone” che fanno un pochino impressione per la fama funesta e creano in coro un baccano impressionante svolazzando e posandosi sugli alberi del parco vicino. Chissà cosa si dicono e non è un caso che il nome scientifico della specie “corone”, derivi dal greco κορώνη (korōnē, inteso come "gracidante" in quanto derivato dal verbo κράζω/krazō, "gracidare".
Mi capita poi di osservare il volo in alta montagna dei corvi imperiali con il loro slancio elegante e leggo che anche loro comunicano fra loro con vocalizzazioni studiate dagli esperti, cui aggiungono altre forme di comunicazioni con i propri simili sbattendo rumorosamente le ali o il becco.
Ho trovato, leggendo il Foglio, un articolo dettagliato di Mattia Manoni - specialista in neuroscienze - proprio sui corvi, che parte - per smontarlo - da un pregiudizio: “Nel nostro immaginario le cornacchie non rivestono un ruolo positivo. Se il cane viene associato alla fedeltà, l’orso alla forza e il leone al coraggio, alla cornacchia è sempre toccata la sfortuna, il mistero o addirittura il grande tabù della morte. Solo da qualche anno questi uccelli sono diventati una presenza abituale nelle città, dove è possibile osservarli nelle piazze o lungo i fiumi, gironzolare attorno ai locali o, alzando lo sguardo, vederli planare sulle nostre teste. E infatti negli ultimi anni è aumentata anche la presenza di informazioni che li riguardano; è facile trovare notizie che riportano comportamenti problematici delle cornacchie nei confronti degli esseri umani (forse troppe notizie, tanto da far pensare che se Hitchcock girasse oggi “Gli uccelli”, lo intitolerebbe “Le cornacchie”), altre che approfondiscono i motivi della loro diffusione e altre ancora che parlano delle capacità che posseggono”.
Segue una lunga spiegazioni sulle capacità cognitive e di adattamento di questa specie e si arriva ad un’esperimento concreto: “Un esempio riguardo le abilità cognitive dei corvidi viene da uno studio inglese molto noto del 2009 che ha coinvolto quattro corvi. Ciò che i ricercatori hanno scoperto è che, proprio come nella favola di Esopo, gli uccelli, messi di fronte a dei cilindri contenenti acqua sulla quale galleggiava del cibo, riuscivano a capire che per raggiungerlo dovevano introdurre delle piccole pietre, così da innalzare il livello dell’acqua e farlo arrivare a portata di becco. Il video dell’esperimento si può reperire facilmente e quello che si nota è proprio la capacità degli animali di valutare attentamente il da farsi. Infatti, riescono a scegliere il contenitore nel quale il cibo si trova sull’acqua al posto di quello in cui si trova sulla sabbia, il contenitore più stretto rispetto a quello più largo e quello con un livello di acqua maggiore invece di quello in cui il livello di acqua è più basso. Niente male”.
E ancora a dimostrazione di un sodalizio con l’uomo: “Nel terzo libro pubblicato da Adelphi nella collana Animalia, si trova un saggio piuttosto voluminoso e ricco di riferimenti bibliografici scritto da Bernd Heinrich – professore emerito di Biologia all’università del Vermont – sulla vita dei corvi imperiali nordamericani e intitolato, nientemeno, “La mente del corvo”.
Nel libro sono presenti molti aneddoti, ipotesi e riflessioni sia dell’autore sia di suoi amici e colleghi, su tutto ciò che ruota attorno all’esistenza di questi uccelli e al loro rapporto con gli esseri umani. “Centinaia di migliaia di anni fa, dall’africa l’uomo si spostò a nord per seguire mandrie enormi di megalocervi, uri e mammut e con tutta probabilità il corvo imperiale ha accompagnato l’uomo per tutto questo periodo, nutrendosi dei resti degli animali cacciati.” “.
Si pensa persino che i corvi abbiano una forma di coscienza, come spiega sempre lo stesso autore: “Fino ad ora l’ipotesi prevalente ha suggerito che le specie che la posseggono (la coscienza) devono questa fortuna alla loro conformazione cerebrale; il cervello, infatti, si è evoluto a strati: quelli inferiori sono stati i primi a svilupparsi e per questo sono implicati nelle funzioni biologiche basilari come il respiro o il battito cardiaco, quelli intermedi si occupano delle emozioni che permettono di relazionarsi con i simili, mentre gli strati che si trovano più in alto mediano le cosiddette “funzioni cognitive di alto livello” come astrazione, linguaggio e, appunto, coscienza. Il fatto è che gli uccelli, essendosi differenziati dai mammiferi 320 milioni di anni fa, non posseggono affatto questo tipo di cervello stratificato e tanto meno gli strati che si trovano in alto. Questo perché il loro è un cervello nucleato, cioè non organizzato in lamine sovrapposte ma in nuclei dislocati su uno stesso piano. Come è possibile, dunque, per quanto li riguarda, parlare di coscienza? Per tentare di rispondere a questa domanda gli scienziati tedeschi hanno addestrato due cornacchie a segnalare tramite dei movimenti della testa di aver visto o meno degli stimoli visivi che apparivano su uno schermo. La loro attività cerebrale veniva registrata grazie a degli elettrodi intracranici inseriti in una parte di cervello nota come pallium. Ciò che è emerso è che l’attività neurale registrata nel pallium conteneva l’informazione che le cornacchie avrebbero poi riferito, cioè di aver visto o meno lo stimolo luminoso; quindi, non semplicemente quello che stavano vedendo ma quello che avrebbero comunicato successivamente. In sostanza, esisteva un’attività cerebrale riguardo gli stimoli visti prima che la consapevolezza di averli percepiti si palesasse tramite le risposte. Mica una gran coscienza, si potrebbe dire. Effettivamente la coscienza sensoriale è considerata una forma piuttosto semplice di coscienza, eppure non è cosa da poco attribuirla ad animali ai quali fino a poco fa non si riconosceva nessuna forma di vissuto mentale”.
Aggiungo ancora un altro passaggio, che ci farà vedere diversamente i corvi a noi vicini e che riguarda il grande Konrad Lorenz:”Persino lui, fondatore dell’etologia, era affascinato dal repertorio comportamentale e dalle abilità cognitive dei corvidi tanto da avere allevato, per generazioni, intere svolazzanti colonie di taccole. Il libro è una fonte inesauribile di aneddoti personali e di spiegazioni sull’origine e lo scopo dei vari comportamenti animali a cui ha assistito in tutti i decenni nei quali casa sua è stata più un giardino zoologico che una normale abitazione. Tra questi se ne può trovare uno su un corvo imperiale di nome Roa: “Se siete amici di un corvo, non gli salterà mai in mente di beccare il vostro occhio, l’occhio del suo amico uomo, più di quanto non pensi di beccare l’occhio di un suo simile. Quando il corvo imperiale Roa era appollaiato sul mio braccio e io accostavo intenzionalmente il mio viso al suo becco, in modo che il mio occhio aperto veniva a trovarsi vicino a quella punta adunca e pericolosa, Roa faceva un gesto proprio commovente: con una mossa nervosa, quasi angosciata, distoglieva il becco dal mio occhio, così come un padre che si sta rasando bada a che la lama del rasoio stia ben lontana dalle manine goffe della sua figlioletta che vogliono afferrarla”. La fortuna di potersi dire amico di un corvo, chi non la vorrebbe?”.
Insomma, elementi utili per uno sguardo diverso verso i corvi!