Diventa naturale, in queste ore in cui nasce la nuova legislatura del Parlamento europeo, pensare al passato e all’occasione unica che ebbi di entrare in una istituzione comunitaria così prestigiosa.
Non sono tanto i ricordi politici che emergono, ma fatti più umani. Abituato alla routine Aosta-Roma e ritorno per un anno circa dovetti giostrarmi nel duplice ruolo di deputato e parlamentare europeo con gli allungamenti necessari su Bruxelles e Strasburgo, a seconda delle riunioni.
Le discontinuità sono un bene e un male. Un bene perché trovarsi di fronte a nuove sfide ti obbliga a mettere energia e uscire dal solito tran tran. Dall’altra esci dal nido ormai caldo in cui eri e devi studiare ambienti nuovi e ci sono momenti in cui ti senti spaesato e ti domandi se ce la farai di fronte alle molte novità.
Montecitorio dal 1987 al 2001 era diventa casa mia e ne conoscevo ogni angolo e le procedure erano per me ormai un vocabolario del tutto noto, come andare in bicicletta senza mani.
Bruxelles, con il suo cosmopolitismo e gigantismo, era invece una frontiera da attraversare con grande cautela e con lo studio delle cose che non sapevo.
Chissà perché si pensa - ed è una profonda ingiustizia - alla politica e ai politici come protagonisti di un’attività remunerativa senza troppi impegni. E in quegli anni di passaggio eravamo nel post Tangentopoli e dunque il disprezzo era manifesto. Mi capitava di andare in vacanza e neppure dicevo quale fosse la mia attività a chi conoscevo lì, perché avevo coscienza di un livore che si esprimeva e si esprimerà ancor di più negli anni successivi con forme estreme di antipolitica e antiparlamentarismo. Questioni espresse in maniera volgare da Grillo e i suoi grillini, il peggio della politica italiana.
Quel che resta di Bruxelles, oltre alla fortuna della lunga coda nel Comitato delle Regioni, sta proprio nella forza di scoprire quante radici in comune abbia l’Europa e nel contempo, come un bosco con tanti alberi diversi, quella ricchezza culturale che fa dell’Europa un unicum. Pensavo in questi giorni al rischio evidente che con il possibile ritorno di Trump alla Casa Bianca – quanto spero non avvenga – ci sia un crescente e in parte annunciato isolazionismo dagli Stati Uniti e una scarsa attenzione, pure con punte di disprezzo, per l’Unione europea e i suoi Paesi. Posso dire che ciò mi preoccupa ma dovrebbe essere stimolo per un sussulto d’orgoglio di noi europei e per una ripresa seria dell’integrazione europea.
Su questo non ho tabù. Chi oggi nicchia su uno scatto dell’integrazione dovrebbe essere punito con uno sdoppiamento di velocità con una Europa più avanzata e una di seconda categoria. Per l’Italia una sfida perché con Meloni, che è stata goffa e pasticciona nelle trattative di questi giorni sulle nuove Istituzioni comunitarie, il rischio di un nazionalismo italiano da operetta dalle tinte provinciali e familistiche ci può spingere più in basso di quanto si possa immaginare.
Quel che è certo è che resto fiero dell’esperienza in quelle stanze e in quei corridoi, delle chances avute nei contatti e nelle conoscenze, di quel poter essere una piccola parte di una comunità enorme e piena di risorse. Il “metodo europeo” tanto vituperato non è un dirigismo sovietico, ma è fatto di approfondimenti grazie ad un funzionariato di altissimo livello, che capisce – a dispetto di chi dice il contrario – di come le scelte politiche siano cose serie e come tali da pianificare. Questo in Italia non avviene e si seguono le emozioni e i capovolgimenti di fronte con scelte contraddittorie e spesso autolesionistiche.
Certo non è oro tutto quel che luccica, ma ho imparato molte cose, che ho cercato di riportare nel mio lavoro in Valle d’Aosta e spero che questo sia stato utile. Qualche rimpianto esiste sempre e quando salgo a Bruxelles ritrovo luoghi e persone dove ho lasciato un pezzo del mio cuore.