Quando arrivai al Parlamento europeo, se non avessi avuto una lunga esperienza alla Camera dei Deputati, non avrei capito un tubo per parecchio tempo. Mentre a Montecitorio riuscivo, pur da solo e in collaborazione con i sudtirolesi, a tenere sotto controllo tutte le Commissioni e l’aula, sbalzando come una pallina del flipper, a Bruxelles e Strasburgo (dove si tengono la grande maggioranza delle sedute d’aula) ci si specializza maggiormente.
Le procedure regolamentari specifiche e l’incalzare dei provvedimenti nelle diverse materie con iter abbastanza complicati e senza i tempi del Bicameralismo richiedono una grande concentrazione e organizzazione. Chi si trovi digiuno di regole di diritto parlamentare e di infarinatura in diverse materie rischia di diventare una specie di autonoma eterodiretto dai funzionari dei Gruppi con il rischio di avere tempi di apprendimento che rendono inefficiente se non inefficace la propria attività.
L’impressione è che in questa tornata elettorale per il Parlamento europeo ci si trovi di fronte a molti eletti che faranno questa fine e cioè risulteranno privi di quelle nozioni di base che servono per fare un buon lavoro sin da subito. Già va detto che gli europarlamentari italiani non godono, pur con le dovute eccezioni, di grande popolarità presso i colleghi degli altri Paesi. In particolare alcuni non sono assidui frequentatori e partecipano ai lavori troppo spesso in modo fugace o con logiche da mordi e fuggi, mancando in certi casi a quel lavoro di Commissione dove si sostanzia gran parte dell’attività.
Io divenni Presidente di Commissione non per merito dei miei colleghi italiani (la Commissione Affari regionali, Trasporti e Turismo spettava ad un italiano dei Liberali e Democratici), ma perché i membri degli altri Paesi diedero atto della mia assiduità nei lavori e dunque premiarono la costanza e – mi auguro – la serietà. Da Presidente capii cosa volesse dire avere una logica di rappresentanza nazionale, che in certi casi va al di là delle appartenenze partitiche, e si gioca in squadra per preminenti ragioni di interesse del proprio Paese, quanto gli italiani – litigiosi per motivi spesso di politica interna – non sempre capiscono, perdendo così partite importanti su temi di preclaro interesse.
Questo vale, nel caso valdostano, per altre tre questioni capitali, che giustificano una soluzione ragionevole che offra la possibilità di avere un parlamentare europeo valdostano. C’è la questione della montagna e della necessità che la legislazione comunitaria – centrata moltissimo sulle grandi città – tenga conto in ogni settore della particolarità dei nostri territori e questo vale per le Alpi, ma anche per le altre montagne nell’Unione europea. L’altro tema è la cooperazione transfrontaliera e cioè l’evoluzione necessaria, anche nel quadro di una Politica regionale da tenere al centro delle azioni comunitarie, evitando quelle tentazioni centralistiche su di un asse Roma-Bruxelles che possa mortificare democrazia locale e loro territori. La terza questione è la tutela delle minoranze linguistiche con elementi comparativi fra i diversi popoli e comunità in Europa, sapendo che certe formule come il nostro bilinguismo (ormai allargato nella scuola all’inglese) sono il futuro in un’Europa plurilingue, oltreché essere logica di rispetto delle radici culturali.
Sono questioni complesse, che si riverberano su altri temi, come la connessione – oggi quasi esaurita – fra normative europee, specie le direttive, e la legislazione originale come dev’essere la nostra, senza aspettare nelle materie che ci spettano le leggi comunitarie varate dal Parlamento italiano. N on è una sterile rivendicazione autonomista, ma sostanza nel rispetto delle nostre prerogative statutarie contro il rischio di un regionalismo livellato e ridotto a poche cose nella morsa fra norme comunitarie e legislazione nazionale.
Sarebbe un vera mortificazione.