Ho visto il fim “Io Capitano” (non spoilero la fine) del regista Matteo Garrone, candidato per gli Oscar. Era stato presentato dall’Italia come miglior film internazionale per l’edizione 2024 ed è stato scelto per la cinquina finale della notte delle stelle del prossimo 10 marzo. La storia parte da due ragazzini, esemplare delle traversie affrontate negli ultimi decenni da migliaia e migliaia di migranti africani, cui si aggiungono molte altre nazionalità non solo via mare, come in questo caso, per attraversare il Mediterraneo, ma anche via terra, specie lungo l’itinerario balcanico.
Seydou (Seydou Sarr, che vive ormai in Italia con famiglia del regista italiano) e Moussa (Moustapha Fall) sono cugini adolescenti nati e cresciuti a Dakar in Senegal. I due ragazzi sognano l’Europa e tentano il viaggio attraverso il deserto del Sahara fino alla Libia, sino a salire sul peschereccio in direzione le coste italiane. Questo avviene dopo molte e dolorose traversie, che sono rappresentazione delle incognite di questi viaggi della speranza, vantaggiose per le mafie e per gli autentici schiavisti che prosperano con questa vera e propria tratta.
Uno spaccato di umanità dolente e di umanità feroce, che fa riflettere su questa immigrazione clandestina, priva di logica e di costrutto, che viola diritti civili e regole internazionali, creando un flusso di migranti casuale e caotico sulla pelle di chi vive di speranze e di illusioni. In più con il rischio di infiltrazioni di delinquenti comuni e di estremisti islamici degni dei peggiori tagliagole.
Spesso siamo abituati, nel fastidio di queste “invasioni” senza regole, a dimenticare i casi singoli, i volti umani, le storie personali e fare di tutta un’erba un fascio è sbagliato. Non si può rinnegare, ad esempio, il diritto d’asilo, se non se ne abusa e se ci siano ragioni serie e non recite o trucchi. L'articolo 10 della Costituzione, al terzo comma, recita: "Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge". Ma i meccanismi di controllo - ormai si può dire con conoscenza di causa - non funzionano e regole lasse innescano incomprensioni che generano, certo anche per altre ragioni, xenofobia e razzismo. Sono situazioni che preoccupano e non bastano condanne generiche, cavalcando lo sdegno per chi perde il senso di umanità e di rispetto del diritto.
L’immigrazione, resa necessaria da molte ragioni come, fra tutte, il nostro crollo demografico non è solo fatta di diritti, ma anche di doveri a base dell’accoglienza. Sono sinceramente preoccupato dalla nascita di società parallele e soprattutto chiuse, resistenti a qualunque forma di integrazione e con comportamenti che cozzano contro elementari principi costituzionali che vanno rispettati come tali da chiunque viva con noi.
Certo è, al di là di tutto, che mi sono commosso del film e devo dire che non nascondo il fatto che mi capiti di farlo, quando le storie raccontate in vario modo mi colpiscono al cuore. Così come mi piace tanto ridere e ne riconosco un uso quasi terapeutico nella quotidianità, penso che per un uomo non ci sia niente di male nel piangere e non ci si debba vergognare mai delle proprie lacrime.
Ci sono due belle frasi che credo che ben rappresentino le lacrime. Una di Simone de Beauvoir: “In tutte le lacrime indugia una speranza”. L’altra di Charlie Chaplin: ”Credo nel potere del riso e delle lacrime come antidoto all'odio e al terrore”.