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08 gen 2024

Dietro il “Come va?”

di Luciano Caveri

“Come va? Come stai?”. È una delle formule di rito negli scambi interpersonali, che si è usato in periodo natalizio incontrando persone che non si vedevano da tempo e ancor di più avverrà in questi giorni di ripresa dopo le vacanze nell’incontro con i soliti noti. Lo si dice in francese “Comment allez-vous? ( dilagando il “tu”, è ormai “vas-tu”), in inglese con “How are you?”, in spagnolo con “Cómo estás?” e in tedesco “Wie geht es dir?”. Segno evidente che si tratta di un’esigenza, nel rapporto con un’altra persona, che accomuna l’intera umanità. Ci pensavo leggendo su Sette, quanto scritto nella sua rubrica, con il solito acume, Antonio Polito: “È pericoloso rispondere elusivamente ad amici, parenti e affini che ti chiedono «come stai?», soprattutto in periodo di feste. Se poi per caso si prolunga troppo l’attimo di incertezza che ti impedisce di adottare la formula di rito, per la quale la domanda non è una vera domanda e non richiede dunque una vera risposta, allora la rivelazione che in fondo non stai poi così bene apre la porta a sgradevoli conseguenze. Se il male imprudentemente confessato è fisico, ancora ancora te la cavi con poco. Qualche rassicurazione su una pronta guarigione, un parallelo con un lontano cugino che ha avuto la stessa cosa e si è completamente ristabilito, la segnalazione di un medico o di un fisioterapista che «fa miracoli». Ma se per caso non c’è niente che non vada nella tua salute, e quell’esitazione che hai avuto è piuttosto dovuta a una mestizia, a un dilemma morale, a un turbamento psicologico, al male di vivere insomma, allora l’interlocutore si sente in obbligo di trasformarsi seduta stante in un terapista. E comincia a snocciolare le molte e a suo dire fondate ragioni per cui «devi tirarti su»”. In effetti la formula di cortesia può diventare un abisso in caso di una malattia che l’interlocutore dettaglia, specie quando è grave. Oppure un balbettio pieno di insicurezze per quella appena citata incertezza nella risposta alla domanda, perché il disagio psicologico, se non mentale, è un buco nero, cui si reagisce con evidente banalizzazione. Osserva ancora Polito: “Un mito del nostro tempo è infatti la perfezione psichica. E sì che intorno a noi ce ne sono di cose che giustificano ampiamente uno stato d’animo un po’ abbattuto, un momento di dispiacere, o una forte preoccupazione. Niente da fare: quella ruga che si forma tra le nostre sopracciglia quando non siamo sereni va appianata al più presto, riempita con qualche Botox dell’anima, sempre disponibile in farmacia, o presso lo studio di uno junghiano, o regalandosi un passatempo, chessò, una macchina nuova o un nuovo amante”. Più che proporre rimedi talvolta bisognerebbe stare all’ascolto, ma siamo tutti inseguiti dalla nostra urgenze e se la risposta alla frasetta banale diventa problematica di esce con velocità dalla conversazione. Non abbiamo più tempo per l’ascolto e i maledetti telefonini ci assorbono e ci privano di utili conversazioni quotidiane, specie quando a titubare di fronte al “come va?” siamo noi stessi e ci accorgiamo che chi ce lo ha chiesto lo ha ha fatto nella logica di una semplice interlocuzione senza interesse. Per altro spesso questa formuletta la dovremmo rivolgercela da soli, in un faccia a faccia salutare con noi stessi.