Ho aspettato qualche giorno per riflettere sul “caso Murgia”, la scrittrice sarda (fiera della sua identità isolana), mancata di recente. Non l’ho fatto perché troppa retorica è stata riversata sull’onda della sua morte e prima questi era avvenuto sulla sua malattia terminale, che lei stessa scelse di rendere pubblica e di riempire di grandi significati politici e di militanza. Lo ha fatto conscia di essere diventata un’icona per una parte dell’opinione pubblica. Nell’ultimo tratto della sua vita è avvenuto con discorsi abbastanza estremi sulla famiglia e su quella parola diventata un inno: Queer! Ha detto e virgoletto: “Una famiglia queer non significa orge e stravizi sessuali. Ma responsabilità reciproca”. E ancora ha spiegato che si tratta di ”nucleo familiare atipico, in cui le relazioni contano più dei ruoli. Parole come compagno, figlio, fratello non bastano a spiegarla”. Si tratta di una scomposizione della famiglia, in logica più che libertaria, di cui per ignoranza mia non capisco bene l’essenza, ma rispetto da sempre ogni diversità nella logica di qualunque opinione sul tema, sempre che non sia lesiva di diritto fondamentali. Confesso di aver letto solo un suo libro, quello che la portò al successo, “Accabadora” e che mi affascinò. S’accabadora era - ma sfugge ancora il confine fra realtà e fantasia - una donna che nei secoli passati in Sardegna si incaricava di praticare l’eutanasia ai malati senza più possibilità di essere curati, su richiesta dei familiari o della vittima stessa. Poi non l’ho più letta ed è una colpa che colmerò, anche se - diciamoci la verità - era ormai più nota come polemista e protagonista di un impegno legittimo e dunque come scrittrice in maniera inferiore ed è ovviamente un mio giudizio contestabile. Ho letto su Linkiesta.it la sempre acuta Guia Soncini, che ha scritto di Murgia e ne citerò alcuni passaggi. Anzitutto una lunga citazione nella prima parte dell’articolo, anticipata dalla tesi di una letteratura in sé che conta ormai poco: “Ora che persino Umberto Eco è diventato troppo sofisticato, troppo complesso, di troppo faticosa digestione per farne quel finger food culturale che è l’unico ormai tollerato dal delicato stomaco d’un grande pubblico che è intollerante al lattosio, al glutine, alle contraddizioni e alle parole non confermative. Lo spiegava piuttosto bene il miglior articolo scritto in morte di Michela Murgia, da Michele Serra su Repubblica. «Murgia si è spavaldamente, a tratti perfino allegramente esposta come leader di un “tutto e subito”, e di un radicalismo anche linguistico, che potevano irritare o appassionare. Sicuramente molto spendibili in chiave social, laddove la dialettica è stritolata nella tenaglia degli amici e dei nemici, della ragione tutta da una parte o tutta da quell’altra. Logica binaria anch’essa, vale constatarlo. È molto probabile che la sintesi, l’“andare oltre”, il superamento di quella furente disputa di genere, e sui generi, per lei fosse la letteratura; non perché nei libri “parlasse d’altro”, ma perché ne parlava diversamente, meno condizionata dall’ansia di prestazione che costruisce buona parte del pathos social”. Insomma lo scrittore che si allarga alla sfera extraletteraria per conquistare spazi rispetto ad un mercato del libro ormai asfittico rispetto al passato. Ancora Soncini: ”Persino nei casi di grandi successi, quali sono stati i libri di Michela Murgia, i numeri sono quelli che vent’anni fa (per non dire cinquanta) avrebbero caratterizzato un insuccesso. Fino alla prima settimana di agosto, a qualche giorno prima della morte dell’autrice, “Tre ciotole”, il libro che era stato annunciato da un’intervista in cui Michela Murgia aveva detto d’avere poco da vivere, e che era stato primo in classifica per parecchie settimane, e poi era comunque rimasto tra i libri più venduti d’Italia, nei suoi primi tre mesi in commercio di quel libro lì erano state comprate novantamila copie”. E poi la provocazione: “Molta più gente ha visto un concerto di Ultimo (chiunque egli sia) nella sola Roma nel luglio 2023 di quanta in tutta Italia abbia comprato il libro col più potente lancio promozionale che autrice italiana abbia mandato sul mercato negli ultimi anni. E molta più gente seguiva Michela Murgia su Instagram di quanta ne comprasse i libri. Michela Murgia è stata coerente fino all’ultimo con la propria identità di rompicoglioni. È morta ad agosto costringendo i suoi cari a tornare precipitosamente da posti mal collegati, ma soprattutto è morta nella settimana in cui Gfk, che si occupa dei rilevamenti delle vendite di libri, è inderogabilmente in ferie, non dando modo agli osservatori di quantificare il valore del decesso per le vendite. I numeri di quel che hanno venduto i libri della Murgia dopo la sua morte li avremo solo lunedì, ma non ci vuole una sacerdotessa di Apollo per immaginarli. Lasciati senza Gfk, i poveri editori in settimana dovevano affidarsi all’impressionismo della classifica Amazon, dove un militare che si autopubblica i suoi penzierini, oggetto d’un quarto d’ora di scandalo per aver detto che mica è normale essere busoni, era primo, rendendo vieppiù cogente quella domanda che si faceva Enrico Vanzina secoli fa: come mai i bestseller non sono mai letti dai best reader?”. E un altro ragionamento colpisce chi i libri cerca ancora di leggerli: “Ogni volta che si parla di libri su un social, il posto dove dice la sua la gente che non sa esprimersi e non ha intenzione d’imparare, c’è sempre qualcuno che protesta: insomma, i libri sono troppo cari. Possono spendere ottanta euro per un concerto ma non venti per un libro? Certo che no: il verbo non è «potere» ma «volere». Non vogliono essere costretti a fare la brutta fatica di concentrarsi su una pagina. Non vogliono buttare soldi per un’esperienza che non potranno instagrammare (ci siamo fatti distrarre da «resilienza», e abbiamo lasciato che quella gramigna lessicale e posturale che è «esperienza» attecchisse). Non vogliono perdere tempo con duecento pagine quando basta e avanza l’intervista a Vanity Fair, di cui oltretutto c’è la versione video che si condivide molto più comodamente (e piace molto di più all’algoritmo) della foto alla pagina di giornale (quella sì residuale come e più dei libri)”. Soncini amarissima in chiusura rompe certo “politicamente corretto”: “Molto si è parlato, privatamente e pubblicamente, del funerale di Michela Murgia. Del rito di massa e quindi inevitabilmente cafone in cui le orazioni funebri venivano interrotte da applausi come raccordi narrativi d’un qualunque concerto di Ultimo; di tizie che non si erano mai viste che si chiamavano l’un l’altra «sorella» e piangevano insieme per una che pure non avevano mai conosciuto; di Elly Schlein che cantava “Bella ciao” abbracciata a Francesca Pascale; di Roberto Saviano che diceva la sua orazione con una mano infilata nella cinta dei pantaloni. A colpire me è stato un dettaglio del dopo. Il cameraman del sito di Repubblica era rimasto fuori dalla chiesa a inquadrare il niente, e a un certo punto gli si è piazzata davanti una tizia del Tg1 col mandato più difficile della giornata. Fermava le ragazze che uscivano dalla chiesa chiedendo «c’è qualcuna che è qui perché era una lettrice di Michela Murgia, perché leggeva i suoi libri?». Quelle la guardavano come fosse di trasparenza medusiaca: era uno spettacolo straziante”. Questo non toglie nulla alla militanza sui Social, alle interviste impegnate e alle conferenze piene di argomenti. Ma la letteratura resta la letteratura.