Sono stato fortunato a vedere le cose da prospettive diverse. In sintesi, come Roma vede la Valle d'Aosta e naturalmente come la Valle d'Aosta vede Roma, con l'addendo a Bruxelles di vedere entrambe. Mi riferisco ai rapporti istituzionali e politici e questo riguarda il nostro presidio: l'Autonomia speciale, come sancita da norme di legge. La partenza furono dopo la Liberazione i decreti luogotenenziali, poi lo Statuto speciale (con modifiche migliorative di cui mi occupai nel 1989, 1993 e 2001) e naturalmente le Norme di attuazione, che è quella legislazione particolare applicativa dello Statuto e che armonizza le leggi statali al nostro ordinamento. Sembra tutto complicato ed invece è un gioco ad incastro, cui si aggiungono due aspetti.
Il primo è vigilare ed intervenire sulla legislazione in Parlamento, per evitare invasioni di campo dello Stato (con questo si misura la capacità dei parlamentari valdostani), e il secondo è la capacità del Consiglio regionale di legiferare bene, sfruttando ogni possibile potenzialità. Al rapporto con Roma a difesa delle nostre prerogative e cercando di allargarle, si è aggiunto nel tempo il ruolo dell'Unione europea che ha allargato la sua incidenza normativa in numerosi campi e bisogna sempre tenerne conto. Questo - per usare una metafora guerresca - è in sintesi il "campo di battaglia" di fronte al quale si trovano gli eletti valdostani nel loro ruolo di portavoce della loro comunità. Naturalmente non siamo tutti uguali: c'è chi all'Autonomia ci crede e si impegna, c'è chi ci crede meno e lo si vede, c'è chi non ci crede affatto e persino chi non ci arriva per ragioni di mancata formazione. Quel che è certo è che i primi a crederci dovrebbero essere i valdostani, che sono stati - con i loro leader di allora - coloro che si sono battuti durante la Resistenza e poi nel periodo successivo e ancora nel tempo per avere questa Autonomia. Se questa spinta propulsiva venisse meno - e qualche segnale ogni tanto lo si vede - allora l'intera costruzione Autonomista crollerebbe e le conseguenza si vedrebbero in fretta. Ma su questo "ésprit" collettivo non è sempre facile agire: l'identità di un popolo cambia e non sempre si riesce a far capire ideali e valori fondativi anche per la responsabilità di una classe politica non sempre all'altezza del ruolo cui è chiamata. Ma, sia chiaro, questo avviene con la complicità di elettori, spesso "distratti" nelle loro scelte. Inutile attardarsi sul tema, perché quel che vorrei sottolineare riguarda il fatto che l'Autonomia deve fare i conti con il clima nazionale, perché i meccanismi fondativi del nostro attuale regime autonomistico non sono scolpiti su di una pietra eterna. Ci sono meccanismi costituzionali di difesa, ma non così solidi da evitare grossi rischi ed in particolare lo scenario di una soppressione della specialità, magari in una crisi complessiva del regionalismo a fronte di uno Stato che decida di limitare al massimo la democrazia locale. Certo segnali in corso in questi anni culminano ora con il Governo Draghi: un Governo tecnico-politico nato per necessità e di cui rispetto il ruolo emergenziale in un embrassons-nous fra partiti avversari di fatto, nato da uno stato di necessità amplificato dalla pandemia. Quel che è certo che questa temperie politica e questo momento storico mostrano l'evidente avversione per le Autonomie speciali come la nostra. Lo si è visto con la gestione supercentralista delle politiche contro il virus e le sue conseguenze economiche e sociali. Lo si vede dal famoso "Pnrr", che è l'apoteosi di un centralismo burocratico e becero a colpi di confusi bandi nazionali senza alcuna reale concertazione con i poteri locali. Lo si vede dalla legislazione nazionale invasiva e confusa e dal rinvio sistematico delle leggi regionali alla Consulta senza alcun rispetto da parte del Governo. Una china pericolosa di cui tenere conto nella speranza che le elezioni politiche del 2023 coincidano con un ritorno ad un clima diverso. In gioco ci sono tante cose, compresa la nostra Autonomia che rischia grosso.