Mi manca lo sci. Mi è capitato di trovare qualcuno che mi chiede: «Ma scii ancora?». Certo che scio ed anche in velocità, prediligendo le piste più difficili. Finché il fisico tiene perché mai dovrei venire meno a quel gesto meraviglioso dello scivolare? Come tanti bambini valdostani ho cominciato da piccolo con attrezzatura degna di Amundsen. Ho dei vecchi "super8" in cui appaio con maglioni fatti a mano, giacche a vento ataviche, cappello con il pon pon, sci di legno e scarponi di cuoio con i lacci e soprattutto intento, per i primi rudimenti, a fare la scaletta tipo Fantozzi. Ho poi memoria delle piste battute in modo sommario con gobbe degne del deserto e ghiaccio vivo in certe circostanze. Poi mi sono evoluto, seguendo le novità della tecnica, che rendono oggi lo sci uno sport molto tecnico con attrezzature performanti e più confortevoli.
Lo stesso vale per gli impianti di risalita, lontani cugini ormai di quegli ovetti, di quegli skilift, di quelle seggiovie del tempo che fu. Ho memoria delle prime salite sugli skilift più irti, quando ti cagavi sotto di cadere nei pendii più difficili attaccato al piattello e pensavi già come uscire dai guai. E cosa dire dello sbraitare dei maestri di sci vecchio stile, che davano energia ai gruppi di allievi abbaiando ordini. Ma la cosa più bella, anzi indimenticabile, era sciare in gruppo con gli amici, dei veri "cannibali" che sfrecciavano senza alcuna disciplina e mi capitò fuoripista di finire, specie con la neve trasformata primaverile, in posti assurdi da cui uscire facendo molta attenzione e con il batticuore. Ora, come capitò con i miei figli più grandi, sfido il piccolo Alexis, fiero di fare l'Agonistica, e so già che mentre lui migliorerà io dovrò fare i conti con i miei menischi e con il rischio, quando faccio lo sbruffone giù per le "nere", di essere raccolto con il cucchiaino in caso di infortunio. Eppure come a fare a meno dell'ebbrezza del correre, sentendo la neve e i suoi rumori in quel panorama incantato che la Valle d'Aosta può assicurare. Ecco perché, da sciatore e da politico che non gigioneggia sulle alternative allo sci da discesa (ho letto scemenze di questi tempi imbattibili sul punto), mi arrabbio che per tempo non si sia voluto a Roma trovare soluzioni valide per garantire un ragionevole compromesso per riaprire impianti e piste. C'è da parte dei famosi scienziati che vegliano legittimamente sulle nostre vite una sostanziale ignoranza, che allontana sempre più Roma dalle Alpi. Ogni cosa, specie le code, poteva essere risolta con buonsenso e invece è sempre più facile usare la rozzezza dei divieti, specie se applicata ad attività che si pensano remote e magari indifferenti sotto il profilo economico. Mentre noi montanari sappiamo bene cosa significhi aver fatto la scelta di chiudere ed i danni ingentissimi causati sino ad oggi e non rimediabili con i soli, persino incerti, "ristori". L'Italia è una Paese pieno di montagne ed a parole sono tutti entusiasti di occuparsene. Ma si tratta troppo spesso di retorica ed esercizi di stile, perché quando a parlare devono essere i fatti, come durante la pandemia, si scelgono misure inadatte e penalizzanti, certo per ignoranza, talvolta per stupidità. Questo mi indigna e mi preoccupa e la questione del turismo dello sci è solo uno dei tanti casi di una crescente frattura fra Montagna e Pianura. Questo conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, quanto sia importante "fare sistema", anzitutto fra le Speciali dell'Arco alpino per far crescere la nostra force de frappe contro il centralismo romano.
P.S.: speriamo che si apra lo sci il 15 febbraio, come sarebbe doveroso!