Sono tante le parole che mi capita di evocare in questa situazione e le declino con casualità, incuriosito dal loro significato. Oggi vorrei parlare della "paralisi", termine medico - come dato tragico - che designa la perdita della funzione motoria o di più muscoli. Viene dal latino "paralўsis -is", dal greco "parálysis, scioglimento, allentamento dei nervi", derivato di "paralýō, dissolvere, rilasciare", da "lýō, sciogliere" col prefisso "para-, presso, vicino". Il primo rischio che può essere targato con "paralisi" è la conseguenza della pandemia, fatta di chiusure e divieti. Non ho mai discusso gli obblighi necessari e le cautele indispensabili, quando ne ho capito la ratio. Proteggersi e proteggere gli altri in una società civile è il minimo. Per cui, soldatino obbediente, ho trangugiato anche storture giuridiche ed eccessi, spesso illogici, che hanno guidato le nostre vite. Ma mai come ora, nel caos totale di notizie contradditorie e comunicazione ondivaga, sono preoccupato dal fatto che non ci si renda conto del "rischio paralisi".
Non è solo una questione economica, per quanto questione capitale per il benessere di tutti, ma addirittura psicologica, perché la contraddittorietà delle decisioni e la mutevolezza dei tempi di decisioni (talora lentissimi e talora improvvisi) crea un disagio crescente ed un affanno che diventa patologico. Ma colpisce in questa fase il rischio di "paralisi decisionale" che grava sulla politica. A Roma la crisi si sta avvitando su sé stessa per la pervicace scelta di Giuseppe Conte di resistere con qualunque acrobazia possibile. Ad Aosta si manifesta qualche titubanza che combatto strenuamente e lo faccio con ancora più convinzione in epoca di pandemia, quando ogni attimo ha il suo perché e qualunque ritardo innesca peggioramenti. L'area autonomista, pur nella sua pluralità, si connota da sempre per il pragmatismo necessario per affrontare le situazioni con più o meno successo, a seconda delle circostanze e dei protagonisti. Ma mai, specie in questa temperie, ci si può allontanare dalla soluzione di problemi concreti attraverso visioni ideologiche o propagandistiche, che suonino quasi come offensive in un momento in cui tutti - opposizioni comprese - debbono remare dalla stessa parte senza perdere tempo o allungare il brodo nelle discussioni. Se non si cerca il giusto equilibrio, i movimenti politici e le alleanze non sono più luoghi di discussione, ma somiglierebbero alle sette religiose con visioni oltranziste che impediscono di ragionare. Ho sempre odiato il massimalismo e l'intransigenza. Non sopporto chi, dopo ore di discussione anche accesa, resta fermo al punto di partenza, perché anche questa è antipolitica e non politica. Ricordo quanto scriveva il compianto Claudio Brédy: «Questa idea della politica come connessa alla felicità umana, di cui crea le pre-condizioni materiali, è ben lontana da quella che ne hanno oggi i cittadini. I sentimenti più diffusi sono invece il cinismo, la disillusione, l'indifferenza, l'insofferenza, sfocianti spesso in un qualunquismo che esprime lontananza e disprezzo verso la politica e i politici. Questi sentimenti sono comprensibili se si pensa ai tanti fallimenti, delusioni e scandali che la politica, anche in Valle d'Aosta, ha prodotto. Tuttavia, l'ondata dell'antipolitica generata da tali sentimenti, porta con sé i germi dell'antidemocrazia, della svalutazione del "pubblico" e del "politico", insita nella visione "mercantilistica" dominante. Che fare quindi? Innanzitutto non rassegnarsi ma partecipare, e in Valle è importante farlo per contrastare la concentrazione di potere, il sistema opaco delle clientele, per riaffermare una politica in cui tornino a prevalere le capacità, l'onestà, la legalità, la coerenza e l'equilibrio». Di questo il mondo autonomista dev'essere degno interprete.