Piano piano, se va avanti così, la candidatura per le Olimpiadi invernali 2026 rappresentata dalla strana coppia "Milano - Cortina" verrà vinta, in solitudine, a tavolino. Se torniamo indietro di sei mesi scopriremmo che in lizza c'erano ancora più o meno sette Paesi, poi tra referendum contrari e rinunce altrimenti espresse sono spariti i nostri vicini vallesani di Sion (ma avevano detto di "no” anche i Grigioni), i turchi di Erzurum, la giapponese Sapporo e la canadese Calgary, così com'era già avvenuto per l'austriaca Graz (pure il Tirolo del Nord ha declinato la candidatura, come i "cugini" sudtirolesi ad un ensemble dolomitico). Una vera ecatombe che dimostra che i Giochi invernali non sono più allettanti e cittadini ed amministratori non vedono più un legame fra i famosi costi ed i conseguenti benefici.
Anzi, chi ragiona si rende conto che si tratta di una generatrice di debiti e di infrastrutture che, come largamente avvenuto dall'eccessivamente celebrata Olimpiade di Torino del 2006, diventano inutili e difficilmente riutilizzabili. E non mi arrampico, perché cadrei al suolo, nella retorica dello spirito olimpico, di cui si ha ormai sulla scena un pallido e esangue fantasma. In Italia la riedizione lombardo-veneta - su cui grava anche l'annuncio governativo secondo il quale neanche un euro verrà da Roma per la manifestazione e annessi e connessi - nasce in una logica all'italiana: non scontentare nessuno e mettere assieme sedi distantissime e soprattutto si tratta della dimostrazione che solo le grandi città di pianura hanno mezzi e volontà per infilarsi in una storia di questo genere. Per altro - tanto per sorridere - per Milano -- la pianura più pianura - pareva, come sta avvenendo per Pechino, indifferente avere le Olimpiadi estive e quelle invernali. Peccato che, ma dicendolo mi sto dando dell'imbecille da solo, non sarebbe male che le Olimpiadi, finalmente umanizzate e non più sprecone, tornassero nel loro habitat naturale, le montagne. Ma, visto che contano i soldi e gli appalti, chi comanda attrae su di sé le decisioni e così, persino la scelta del logo olimpico diviene una straordinaria e rivelatrice cartina di tornasole. Anzi, è come una macchina della verità, che consente di capire meglio le cose, dimostrando quando si raccontano le bugie. Il tema non è solo sportivo, ma molto molto politico. Così, scrive, citandomi, il mio amico occitano Mariano Allocco: «Condivido il "tweet" di Luciano Caveri dalla Val d'Aosta dal suo blog "Il logo per la candidatura olimpica, che richiama il Duomo di Milano, conferma che Olimpiadi invernali capitanate da una metropoli suonano ridicole per le Alpi" e, da montanaro, confesso che anche io non riesco ad associare l'ambiente alpino alla Madonnina ora immersa nelle nebbie, come non riesco ad intravvedere orizzonti montani nella Pianura Padana. Il logo per la candidatura olimpica e i confini della Macroregione Alpina per cui l'Europa vuole darsi una strategia che comprendono tutto il Nord Italia hanno stessa origine ideologica e stessi obiettivi: è il nuovo colonialismo interno europeo che si affaccia prepotente proprio nei confronti delle Alpi. Perché tutto questo? Perché ormai dalla Metropoli si guarda al Monte per cogliere le ultime opportunità possibili senza una visione strategica, né obiettivi condivisi con le genti alpine e proprio queste comunità, da sempre eterodosse, ora paiono d'impaccio. Non per nulla sono sotto schiaffo i Piccoli Comuni delle nostre valli, ecco perché si vuole procedere con le fusioni in tempi brevi! Se nell'immediato dopoguerra si sono fatte fallire migliaia di aziende alpine per fornire braccia all'industrializzazione della pianura, ora si vuole grattare il fondo col prelievo di quanto è rimasto: ambiente e risorse naturali. Questa strada non porta lontano, a breve magari si arraffa qualcosa, ma si creano i presupposti per innescare un conflitto tra città e contado di cui nessuno sente la necessità. Quanto sta succedendo in Francia con i "gilets jaunes" non basta per dare la dimensione della fatica che sta accumulandosi nel contado di tutta l'Europa? Cosa si aspetta a pensare e realizzare un "patto di sindacato" frutto di un confronto alla pari tra Monte e Piano? La Politica deve scendere in campo per creare un ponte tra due mondi che stanno perdendosi di vista e che solo unendo energie in spirale positiva possono pensare ad un avvenire possibile, ma la Politica è la grande assente». Insomma, Mariano tiene accesa una lampadina di speranza. Io sono ormai, anche se accorrente alternata, meno ottimista. Le mani sulle risorse ci sono tutte: l'acqua come elemento utile dall'idroelettrico al potabile, il bosco da espropriare ai montanari per farne un affare, l'ambiente naturale "colonizzato" dai Parchi per una rinaturalizzazione ridicola, il venir meno dei servizi pubblici essenziali nelle vallate che obbligano le poche famiglie arroccate in certe zone ad andarsene. Ma vi è soprattutto - lo sanno bene le vallate piemontesi finite sotto l'ala - dell'Area Metropolitana di Torino la considerazione che "lassù gli ultimi" contano poco in termini di voti e dunque hanno diritto a risorse proporzionali e poco conta che l'abbandono della montagna crolli poi ad ogni alluvione sulla pianura. Chi ha forme di autogoverno, come Regioni e Province autonome, si trova con sempre meno soldi e con la voglia di comandare dei centri che sia Roma od i capoluoghi regionali. E la valanga di convegni che dicono il contrario sono fumo negli occhi per chi si fa abbindolare. E l'ultima nata, la Macroregione Alpina in cui ho molto investito quando doveva nascere ed era in culla, o sviluppa politiche per le montagne vere e proprie delle Alpi o diventa un mostro giuridico che metterà al guinzaglio i montanari zotici, in quella logica colonialista già indicata. Se esiste ancora una classe dirigente alpina e un mondo di intellettuali (meglio, forse, dire studiosi) batta un colpo, perché queste Olimpiadi stracittadine - ormai snobbate da tutti i Paesi che contano - sono un triste segno dei tempi.