Sembra passato un tempo infinito da quando cominciai a fare il giornalista nella pur piccola Valle d'Aosta per via di una sconvolgente e rapidissima evoluzione tecnologica, che ha modificato usi e costumi. Considero la gran parte di queste novità come un elemento positivo e chi si arrocca nella difesa del passato sepolto si fa solo del male, come certi miei conoscenti fierissimi di non usare il computer o beati nel considerare la Rete come qualcosa da disprezzare. Certo è che una quarantina di anni fa le notizie si cercavano andando in giro o per telefono: non esisteva altro, nessuna agenzia ("Ansa" batteva sporadiche notizie da Aosta), niente Web, scarsi comunicati stampa. Era un lavoro di ricerca e dunque giornalismo ruspante che prevedeva fatica e ingegno.
C'erano giorni in cui ero persino solo a fare il Gazzettino radiofonico regionale, "La Voix de la Vallée", e dovevo ricavare una ventina di minuti di notizie, comprensive di qualche servizio registrato sul nastro delle bobine d'epoca (oggi tutto è digitale). Quando uscivo per la televisione (la grande palestra della "Rai" valdostana era passare dalla Radio alla Televisione), spesso capitava di finire sui luoghi di vicende di cronaca nera e uno dei più grandi problemi da risolvere - non appaia macabro dirlo - era trovare la foto dei morti ammazzati o delle vittime di incidenti. Se qualcuno delle Forze dell'ordine rinveniva un documento d'identità ci si arrangiava con la fototessera, altrimenti toccava - quando possibile - chiedere a qualche familiare o amico, sempre con il tatto necessario per un vero e proprio lavoraccio. Oggi - pensiamo a Genova e ad analoghi fatti di cronaca - tutto è cambiato per chi deve lavorare sui fatti di cronaca nera. Perché siamo di fronte ad un mondo fatto di fotografie. Sono i "social" - in particolare "Instagram" - ad averci istigato ad una duplice visuale: un esibizionismo fotografico cui corrisponde un voyeurismo fotografico. Nel caso di brutte notizie oggi un cronista non deve più penare: cerca le tracce lasciate sul Web, facendo attenzione alle omonimie ed in genere è in grado di trovare un sacco di materiale. Così per le vittime del "ponte Morandi" di Genova è stato possibile commuoversi di fronte alle loro foto sui "social" con vite comuni, storie familiari, amori vecchi e nuovi, persino solitudini messi assieme alla rinfusa dalla tragedia. Quasi sempre in verità sono scatti gioiosi o scherzosi, che nulla hanno a che fare con quelle triste e mute fototessere all'epoca del mio praticantato. In più, oltre alle foto, quando i profili sono accessibili si ricostruiscono - come l'autore voleva che fosse - pensieri e atteggiamenti, che in certi casi tracciano la personalità degli scomparsi in quello specchio in cui essi stessi si sono rappresentati, forse mai ragionando che quella sarebbe stata una loro galleria postuma, come un testamento. Forse qualcuno - di cui ogni tanto sbircio i profili - dovrebbe rendersi conto di questa evidenza valida anche in vita. Perché l'esibizionismo ci sta - pure la vanità in cui io stesso casco - ma bisognerebbe rendersi conto che foto e scritti restano memorizzati e spesso il rischio è quello non solo di fare una figuraccia post mortem (di cui l'interessato non avrà notizia), quanto per chi è vivo e vegeto e può ritrovarsi a un colloquio di lavoro con l'interlocutore che ha già sbirciato certe mattane fatte e persino immortalate che possono far stracciare anche curricula fantastici. Questa democratizzazione della fotografia con facilità tecnica di realizzazione e immediata diffusione sui "social" ha cambiato le cose ed ognuno di noi si figura in più di avere un qualche talento. Per cui è bene non perdere qualche bella mostra fotografica per rimettere i piedi per terra.