Non credo di avere particolari fobie, ma devo dire che quando mi è capitato di trovarmi nel "pigia pigia" di una folla in movimento il mio disagio è stato notevole, senza evocare aspetti patologici come l'agorafobia o la demofobia. Per cui evito, sapendolo, di mettermi in determinate situazioni. Dunque a vedere su di un maxischermo la sfortunata finale di "Champions" della Juventus in piazza San Carlo a Torino non ci sarei mai andato proprio, perché era comprensibile un assembramento di gente per godersi in compagnia uno spettacolo del genere. Oltretutto, guardando le immagini dall'alto della piazza piena di gente (ho letto che la piazza misura 168 metri di lunghezza e 76 di larghezza, dunque per un totale di 12.768 metri quadrati) c'è veramente da domandarsi con quale logica si sia consentito, sabato scorso, l'accesso in questo "salotto" di Torino ad una marea di persone così vasta.
Oltretutto sappiamo bene che certe densità così forti, in epoca di possibili attentati islamisti, vanno evitate, perché si tratta della condizione ideale per chi voglia nuocere gravemente. Anche se sono il primo a dire che bisogna sforzarsi di vivere nella normalità, quel che accaduto - cioè una folla impazzita perché convinta che stesse accadendo qualcosa di grave - dimostra che non erano state assunte tutte le misure necessarie per evitare quel che è accaduto. Come si dice in certi casi, l'esito si sarebbe potuto dimostrare ancora peggiore. Ha ragione chi dice che grandi schermi si sarebbero potuti posizionare in uno stadio, magari proprio quello della Juve! Ora si cerca la necessaria chiarezza sulla dinamica dei fatti. Soprattutto - fra notizie date e poi smentite - si cerca di capire se ci siano stati dei balordi che hanno agitato la piazza, quale ruolo abbiano avuto tifosi organizzati già noti alle Forze dell'ordine e soprattutto come mai - oltre al numero eccessivo di persone stipate nella piazza - si sia consentito consumo di alcolici e l'ingresso di bottiglie di vetro (sul punto il Questore parla di incostituzionalità di un'eventuale ordinanza, ma il vetro non entra negli stadi!), che hanno causato un gran parte delle ferite al momento degli ondeggiamenti delle persone in fuga. Ho notato che, essendo la Sindaca di Torino, Chiara Appendino, una delle punte di diamante dei "Cinque Stelle", c'è chi - in termini sia offensivi che difensivi - l'ha buttata in politica, quando invece la questione a mio avviso non deve avere colore. Anche perché l'Appendino è molto più espressione dell'establishment torinese di quanto si vuol far credere. Certo chi ha sbagliato deve pagarne il prezzo, qualunque sia il suo ruolo, ma far finta di niente - per chissà quale convenienza - sarebbe una brutta storia. E' vero, infatti, che ci si deve abituare a convivere con situazioni di potenziale pericolo e che pensare di arginare fenomeni terroristici con islamisti suicidi pronti a tutto mette a dura prova qualunque aspetto preventivo, proprio per l'indeterminatezza dei meccanismi delle azioni terroristiche possibili, ma andarsele a cercare, come capitato questa volta, è davvero privo di senso e ingenera una sensazione di crescente insicurezza, che finisce per fare il gioco dei "cattivi", che già si impegnano per conto loro. Su questo bisogna intendersi. Ero poco più che un ragazzo quando vivevo nella Torino del terrorismo degli anni Settanta. Non era confortevole, perché a destra e a sinistra, si giocava con la vita delle persone e scoppiavano anche - pure in una logica di "strategia della tensione" che è rimasta ancora oscura nei suoi gangli principali - delle bombe messe piuttosto a casaccio in treni, stazioni, banche. Si conviveva con questa eventualità, forse con l'ingenuità dei vent'anni. Ma oggi bisogna abituarsi a qualcosa di ancora peggiore: esiste la possibilità, ormai dovunque nel mondo, di finire - come oggetti inanimati - vittime di terrorista lobotomizzato dalla ideologia islamista, che ha come solo scopo quello di uccidere più persone possibili, perché questo è il compito che gli è affidato, senza andare troppo per il sottile nella scelta di chi fare fuori. Questa circostanza, pesante per ciascuno di noi perché studiata per farci avvincere dal terrore e modificare in negativo la nostra vita e i suoi spazi, ci obbliga a due cose. La prima è tristissima, perché certe situazioni restringono di fatto la nostra libertà individuale e collettiva, avendo meno privacy e controlli più occhiuti, vigilando però che non si approfitti di questa circostanza per trasformare le nostre società in Stati polizieschi veri e propri. Molti segnalano questa possibilità, ma non bisogna essere paranoici ma pragmatici, facendo certo attenzione - da cittadini consapevoli - che certe soglie non vengano mai superate. La seconda è altrettanto cupa e riguarda la necessità per tutti di assumere un maggior numero di precauzioni soggettive e, per chi si occupa dei problemi pubblici, mettersi sempre dall'angolatura del peggio possibile, trovando - nel rispetto del buonsenso per evitare di stare barricati in casa - di contemperare la sicurezza con la necessità di evitare rischi inutili. Come purtroppo, invece, è accaduto a Torino. Non si tratta di cercare la gogna per qualcuno, ma neppure si deve usare il silenziatore della fatalità contro errori e omissioni.