Prima di pubblicarla di primo mattino, scrivo ormai da molti anni questa rubrica sul mio telefono, un "iPhone" che è sempre più vecchio del modello appena uscito. Mi conforta poter ancora adoperare i caratteri della tastiera senza avere gli occhiali e penso che sia l'effetto positivo di una compensazione fra una leggera miopia e l'implacabile presbiopia, che crea un equilibrio visivo che finché dura mi evita gli occhiali. Come facevo un tempo a margine dell'agendina annuale o negli spazi bianchi alla fine di un libro con la mia scrittura grande costretta a farsi più piccina, annoto ora sul palmare pensieri, frasi lette da qualche parte, magari traendole da articoli o da letture su eBook con la tecnica banale del "copia e incolla". Ho imparato a non buttare via niente di quel che ritengo utile, come un rigattiere che ammonticchi oggetti e li utilizzi alla bisogna oppure li tenga lì non per mero esercizio di accumulazione ma nella speranza prima o poi di venderli.
Così mi capita di fare con spunti e parole lasciati inanimati a che rivivono nella mia comunicazione, Ciò mi fa venire in mente per pura associazione di idee quante volte da bambino, come ginnastica mentale, abbia giocato a quel gioco altamente stimolante come tanti altri giochi dell'infanzia. Lo ricordate? "Dire": dire qualche cosa; "Fare": fare qualche cosa; "Baciare": baciare qualcuno; "Lettera": si scrive con il dito una lettera sulla schiena di chi paga il pegno, il quale deve decifrare il messaggio. Dopodiché la lettera viene affrancata con una bella pacca sulla spalla e spedita talvolta con un binario calcio nel sedere! "Testamento": è in genere la penitenza più dolorosa, perché bisogna subire i dispetti dei compagni, in genere botte, per ben dieci volte. Il ragazzo che paga il pegno volge la schiena ai compagni che nel frattempo decidono dieci penitenze fisiche (calci, pugni, sberle, ma anche baci, carezze…). Uno chiede: «Quanti ne vuoi di questi?» ed il "penitente" risponde un numero da uno a dieci, senza sapere di che cosa si li aspetti. Fine della descrizione. Quante risate e bisticci, quanti batticuore (baciare!), quanta fantasia: ogni tanto diamo per acquisite tante cose e a svegliarci è proprio la freschezza dei bambini in cui riconosciamo il noi che siamo stati e che ci dorme dentro e che personalmente credo di tanto in tanto si debba coccolare per evitare di diventare - ne vedo tante in giro - persone che invecchiando diventano grette e meschine, imbevute di frustrazioni e tristezze per il bilancio infausto della loro vita. Così ho ritrovato, nella mia "tasca di Eta Beta" della memoria del mio telefonino, una frase che non ricordo affatto da dove sia stata tratta: "Je préfère vivre en optimiste et me tromper, que vivre en pessimiste pour la seule satisfaction d’avoir eu raison" (Milan Kundera). E' una di quelle frasi che ti obbligano a pensarci, non essendo il significato così evidente ad una prima lettura. Si racconta in sostanza quanto penso sia capitato a tutti: ti trovi volendolo o subendolo - situazione con molte sfumature intermedie - ad un incrocio della tua vita e capita spesso che avvenga, scegliendo di conseguenza una strada che una volta intrapresa porta a delle conseguenze. Poi a conti fatti ti chiedi se la scelta sia stata giusta o sbagliata e il rischio - se non prendi le cose sapendo che vivere non è un continuo calcolo - è quello di avvitarsi in pentimenti e in rimpianti che non servono mai. Scrivere ogni giorno è stato per me un esercizio istruttivo, nato ben prima che i "Social" si affermassero, perché mi consente - fissando come dei punti di riferimento nel tempo - di ricordare i perché e i percome, senza mai perdere l'ottimismo, energia pulita a differenza del pessimismo e del suo codazzo di sentimenti negativi, di cattivi pensieri e di cattive persone che li alimentano. Ma, con Dante Alighieri, i peggiori alla fine sono gli ignavi, cioè chi è indolente e infingardo: «Fama di loro il mondo esser non lassa; misericordia e giustizia li sdegna: non ragioniam di lor, ma guarda e passa».