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06 giu 2016

Pensando a Cassius Clay

di Luciano Caveri

Ne parlo con un certo pudore a fronte di articoli di vario genere che ne hanno onorato la memoria così come io non sarei mai in grado di fare, ma visto che qui annoto i miei pensieri mi arrischio lo stesso. Cassius Clay - mi veniva naturale chiamarlo così con buona pace del nome "non da schiavo" Muhammad Alì dalla conversione all'Islam - era per me un mito e dovessi esattamente dire il perché risponderei a caldo che non lo con esattezza. Non era la boxe in sé, che ricordo aver visto dal vivo solo due volte nella mia vita e con combattimenti medio-bassi - una volta a Verrès è una a Saint-Vincent - e specie prima dei combattimenti cruciali avevo visto incontri abbastanza cruenti che fecero crescere la mia considerazione per tutti quei boxeur che se la danno di santa ragione in tutti i circuiti inferiori. Anche se Cassius Clay era naturalmente attrattivo per bambini e ragazzi perché era guascone al punto giusto e aveva quel modo di boxare che metteva allegria con quel suo danzare sul ring.

Ma se seguire le cronache sportive era normale, perché dava l'idea di un fanfarone che però sapeva dove andare e alla fine vinceva sempre, poi per la mia generazione era interessante anche per la sua capacità di porsi dalla parte dei diritti civili contro le guerre, a favore dei neri negli Stati Uniti, ma anche dell'Africa, visto che lì erano le radici di questo gigante. Ed era uno che sapeva arringare le folle in favor di telecamera ma che poi pagava il conto con coraggio sulla sua pelle: il dire e il fare e questo - nell'età dell'idea piano giovanile - lo rendeva automaticamente qualcuno da ascoltare e lo testimoniavano anche i periodici reportage del suo amico italiano, il giornalista Gianni Minà. Ricordo notti, per via del fuso orario, in cui in televisione o perlopiù in radio si seguivano le sue gesta, che erano sempre precedute da veri e propri spettacoli, perché Clay sapeva adoperare i media con grande malizia. Ogni occasione era buona per fare spettacolo e sport, ma anche proselitismo politico, pur in una logica che spesso diventava confusa, frutto di chissà quali ragionamenti, ma sempre con il riconoscimento di qualcuno che nelle sue azioni ci mette la faccia. Ricordo - il flash mi arriva mentre scrivo - che una volta parlai di lui con il giornalista, grande americanista, Ruggero Orlando, che mi raccontò retroscena di questo grande personaggio che aveva conosciuto dietro le quinte in interviste che si trasformavano in un misto tra comizio e show. Ero già adulto quando nel 1984 Clay annunciò di essere malato di "Parkinson" e iniziò a allora da allora un combattimento trentennale contro questa malattia invalidante ed insidiosa per chi della sua prestanza fisica e dell'oratorio tribunizia aveva fatto una sua forza. Ma commentò così: «E' il giudizio di Dio. Mi ha dato questa malattia per ricordarmi che non sono io il "numero uno", è lui». Ma certo anche in questo fu un esempio di indicibile coraggio: pensiamo alle Olimpiadi. Aveva trionfato a Roma nel 1960, ma poi fu l'ultimo tedoforo ad Atlanta 1996, dove non ebbe paura di mostrare la parte del corpo ormai squassata dai tremori della malattia e fu presente - testimonial della guerra al Parkinson - anche ai Giochi Olimpici di Londra nel 2012. Ora se n'è andato, avvolto dalla gloria e dalla leggenda, e con lui un pezzo di noi che guardavamo a questo omone di colore come un simbolo di libertà.