Si vede che non siamo più una civiltà contadina e che il mondo rurale vive ormai una separatezza culturale rispetto al passato in cui il ritmo delle stagioni e la prepotenza della Natura si affermavano nel regolare l'orologio della società in generale. Basta leggere il nostro Statuto d'autonomia del 1948 per riconoscere - nelle materie elencate come competenza esclusiva e integrativa - il segno di una cultura rurale che avvolgeva ancora tutto, in barba alla potente industrializzazione che pure aveva interessato una buona parte del fondovalle. Pensate all'autunno ed alla concezione che noi ormai abbiamo di questa stagione, iniziata in questi giorni. L'etimologia ci aiuta a ricostruire la psicologia che portava alla definizione di questo periodo: "autumnus" viene da un verbo latino, "augere", che significa "accrescere", di cui la definizione del periodo non sarebbe altro che un antico participio, che mette in risalto come - finita l'epoca del raccolto - l'autunno era il periodo di maggior abbondanza in vista poi dei rigori e delle ristrettezze alimentari di un inverno in cui si consumava quanto prodotto in una logica antica di autoconsumo. Oggi l'autunno è qualcosa di diverso in cui addirittura viviamo una natura decadente e trasfigurata da una visione poetica di cui esiste ampia casistica che accentua semmai i caratteri intimistici di un ambiente naturale che si impoverisce in attesa dei rigori invernali e della severità di una natura in sonno.
Esemplare in questo senso è una poesia "Canzone d’autunno", che sembra di viva attualità, ma ricorda le inquietudini del 1918, che scrisse Federico Garcia Lorca:
Oggi sento nel cuore un vago tremore di stelle, ma il mio sentiero si perde nell'anima della nebbia. La luce mi spezza le ali e il dolore della mia tristezza bagna i ricordi alla fonte dell'idea. Tutte le rose sono bianche, bianche come la mia pena, e non sono le rose bianche, perché ci ha nevicato sopra. Prima ci fu l'arcobaleno. Nevica anche sulla mia anima. La neve dell'anima ha fiocchi di baci e di scene che sono affondate nell'ombra o nella luce di chi le pensa. La neve cade dalle rose, ma quella dell'anima resta e l'artiglio degli anni ne fa un sudario. Si scioglierà la neve quando moriremo? O ci sarà altra neve e altre rose più perfette? Scenderà la pace su di noi come c'insegna Cristo? O non sarà mai possibile la soluzione del problema? E se l'amore c'inganna? Chi animerà la nostra vita se il crepuscolo ci sprofonda nella vera scienza del Bene che forse non esiste e del Male che batte vicino? Se la speranza si spegne e ricomincia Babele che torcia illuminerà le strade della Terra? Se l'azzurro è un sogno, che ne sarà dell'innocenza? Che ne sarà del cuore se l'Amore non ha frecce? Se la morte è la morte, che ne sarà dei poeti e delle cose addormentate che più nessuno ricorda? O sole della speranza! Acqua chiara! Luna nuova! Cuori dei bambini! Anime rudi delle pietre! Oggi sento nel cuore un vago tremore di stelle e tutte le rose sono bianche come la mia pena.
Quel che colpisce, nel visitare Paesi poveri, è come questo senso atavico – contadino appunto – delle stagioni esista ancora senza ad esempio quella "falsificazione" che deriva dal riscaldamento generalizzato e dalle tecniche di raffrescamento, che creano una stagione sempre uguale che finisce per allontanarci dai ritmi reali del clima. Personalmente amo l'autunno e trovo che questa stagione – lo scrivo oggi con un cielo grigio della mia finestra – abbia in montagna un'intensità e una ricchezza che non è eguali. A chi ama la montagna dico sempre che i colori che si accendono nelle settimane a venire le nostre Alpi, complice l'altimetria che segmenta i declivi sino alle vette, sono un quadro unico e straordinario che è davvero consolatorio.