Pare che un'errata definizione in un servizio del telegiornale - un ristorante definito come agriturismo quando non lo era - abbia creato una rabbiatura nei gestori di agriturismi. La reazione è positiva e cercherò di spiegare il perché. Quel che c'è di divertente nei giornalisti (categoria cui appartengo con il numero "9" come iscrizione all'Ordine della Valle d'Aosta) è la ripetitività. Quando c'è qualcuno che lancia un refrain in tanti lo seguono. Una delle parole d'ordine del periodo pasquale, inventata da un singolo che poi probabilmente sarà un dispaccio d'agenzia, è stata: vanno molto bene gli agriturismi e da lì in poi attorno al tema c'è stata una "catena di Sant'Antonio" rinvenibile per tutto il periodo vacanzifero genere tormentone. Dicevamo dell'aspetto positivo. La legislazione regionale in Valle d'Aosta sull'agriturismo è garantista per il consumatore e anche per il coltivatore diretto che sceglie di avere un'attività turistica integrativa del proprio reddito e ben sappiamo come come accoppiamento sarà importante specie quando, purtroppo tra pochi anni, i contributi europei declineranno. Per cui la cinquantina di strutture che ci sono in Valle garantiscono mediamente, quindi con alti e bassi di qualità, un legame fra prodotti aziendali e quanto viene proposto al consumo nel ristorante. Fuori Valle questo criterio è in generale inesistente a causa di un lassismo ben noto, per cui nessun agriturismo si sarebbe arrabbiato di un ristorante "normale" scambiato per questa formula, da noi invece appositamente normata e dunque distinta nella percezione comune, che lega strettamente agricoltura e turismo.