Leggo su Professionereporter, ottimo sito sul dietro le quinte nel mondo giornalistico, un’interessante cronaca su di una visita di un gruppo di colleghi in Vaticano in occasione del Giubileo dei comunicatori.
Si tratta di un intervento di Papa Francesco, un Pontefice che leggo spesso, anche se in certe occasioni, in cui pare essere stato improvvido, non condivido le dichiarazioni.
E ricordo che l’infallibilità papale non significa che il Papa sia infallibile in ogni sua azione o parola. È limitata, infatti, esclusivamente a dichiarazioni ex cathedra su questioni di fede e morale. E di conseguenza opinioni personali, decisioni politiche o pastorali, e persino alcune dichiarazioni pubbliche non rientrano nel campo dell’infallibilità.
Dice l’articolo: “Nel discorso ricorda i giornalisti che hanno sacrificato la vita nell’ultimo anno (120, secondo la Federazione internazionale dei giornalisti). Chiede “a chi ha il potere di farlo” di liberare giornalisti ingiustamente imprigionati (500, secondo Reporters senza frontiere). Parla dell’importanza dell’informazione “libera, responsabile e corretta senza la quale non distinguiamo più la verità dalla menzogna”. Dice che quella del giornalista è vocazione e missione: “Il linguaggio, l’atteggiamento, i toni, possono essere determinanti e fare la differenza tra una comunicazione che riaccende la speranza, crea ponti, apre porte, e una comunicazione che invece accresce le divisioni, le polarizzazioni, le semplificazioni della realtà”. Invita a mettersi “dalla parte di chi è emarginato, di chi non è visto né ascoltato”“.
Si aggiunge ancora: “E invita a “raccontare anche storie di speranza, storie che nutrono la vita. Il vostro storytelling sia anche ‘hopetelling’. Quando raccontate il male, lasciate spazio alla possibilità di ricucire ciò che è strappato”. Inoltre vorrebbe “espellere quella ‘putrefazione cerebrale’ causata dalla dipendenza dal continuo scrolling, ‘scorrimento’, sui social media” “.
Interessante questo pensiero, specie per i giovani. Non a caso ha aggiunto il Pontefice: “Comunicare è uscire un po’ da se stessi per dare del mio all’altro. E la comunicazione non solo è l’uscita, ma anche l’incontro con l’altro. Saper comunicare è una grande saggezza, una grande saggezza!”.
E ancora: “Senza un’informazione libera, responsabile e corretta rischiamo di non distinguere più la verità dalla menzogna; senza questo, ci esponiamo a crescenti pregiudizi e polarizzazioni che distruggono i legami di convivenza civile e impediscono di ricostruire la fraternità”.
E poi: “Le scelte di ognuno di noi contano, ad esempio per espellere quella ‘putrefazione cerebrale’ causata dalla dipendenza dal continuo scrolling, ‘scorrimento’, sui social media, definita dal Dizionario di Oxford come parola dell’anno. Dove trovare la cura per questa malattia se non nel lavorare, tutti insieme, alla formazione, soprattutto dei giovani? Pensate a quanta forza di cambiamento si nasconde potenzialmente nel vostro lavoro ogni volta che mettete in contatto realtà che – per ignoranza o per pregiudizio – si contrappongono! Le storie rivelano il nostro essere parte di un tessuto vivo; l’intreccio dei fili coi quali siamo collegati gli uni agli altri. In questo Giubileo faccio quindi un altro appello a voi qui riuniti e ai comunicatori di tutto il mondo: raccontate anche storie di speranza, storie che nutrono la vita. Il vostro storytelling sia anche ‘hopetelling’. Quando raccontate il male, lasciate spazio alla possibilità di ricucire ciò che è strappato, al dinamismo di bene che può riparare ciò che è rotto. Seminate interrogativi. Raccontare la speranza significa vedere le briciole di bene nascoste anche quando tutto sembra perduto. Significa accorgersi dei germogli che spuntano quando la terra è ancora coperta dalle ceneri. È questo il potere delle storie. Ed è questo che vi incoraggio a fare: raccontare la speranza, condividerla. Questa è – come direbbe San Paolo – la vostra ‘buona battaglia’”.
Vecchia storia l’idea che solo le cattive notizie facciano notizia!