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18 dic 2024

La storia delle sorelle Timo

di Luciano Caveri

Si chiude un ciclo della vita e rimangono tanti pensieri, perché - come diceva il Conte di Rivarol - il tempo è come un fiume: non risale mai alla sorgente.

Agostina, l'ultima delle sorelle Timo, se n'è andara ormai novantenne nei giorni scorso. Era la sorella di mia mamma. Nonno Emilio e nonna Ines avevano avuto tre figlie e non so perché scelsero per loro dei nomi inusuali: Floriana, la più vecchia, che ci lasciò nel 2010, mia mamma Brunilde la raggiunse due anni fa e ora ci lascia la più giovane. Erano tre autentiche bellezze: la bionda capofila e due more a seguire. Le loro storie sono state uno strano incrocio di casualità che le portò in Valle d’Aosta nel dopoguerra a vivere a pochi chilometri di distanza.

Erano tutte e tre nate a Castelvecchio di Oneglia, pochi anni dopo la nascita di Imperia avvenuta con la fusione con Porto Maurizio. È la città che ogni anno vince il titolo per il miglior clima in Italia.

Ricordo le tante estati passate con mio fratello nella casa del nonno assieme ai miei tre cugini ed erano illuminate dalla quotidianità spensierata di quando si è bambini e dalla dinamica di rapporti fra queste tre sorelle ciarliere e solari sotto il controllo di quella figura patriarcale del nonno.

Commercianti di olio, aveva vissuto da ufficiale di cavalleria la guerra di Libia e poi la Prima guerra mondiale. Lo ricordo anziano, a rotazione nella casa delle figlie, quando era ormai molto stanco e chiuso in una sua solitudine assai metodica. Era la sua una sorta di malessere di una vita segnata da un dolore comprensibile.

Nonno era stato abbandonato alla nascita, Timo un nome inventato e meglio di tanti cognomi assegnati a bambini orfani. Era stato il frutto di un amore extraconiugale e venne adottato da una famiglia dell’entroterra, in una frazione di Testico sulla montagna savonese chiamata Ginestro, che lo fece crescere, ma lo stigma di essere figlio di N.N. (Nomen nescio (o anche nescio nomen e cioè non conosco il nome), come purtroppo si scriveva sui documenti sino alla metà degli anni Cinquanta, era stato per lui un rovello. Aveva scoperto chi fosse sua mamma (descritta come “una contessa di Alassio” nei racconti di famiglia) e suo papà, un medico condotto della zona. Da piccolo i coetanei per la somiglianza lo canzonavano in dialetto, chiamandolo “u meghettu” per ricordare il padre cui somigliava. Aveva trovato in Ines, marchigiana di Pergola, una compagna che sapeva lenire quel lato del suo carattere ed era per noi una nonna affettuosa ma senza troppe smancerie.

Fu Floriana la prima ad arrivare in Valle per fare la maestra e conobbe un giovane veterinario di Pont-Saint-Martin, già comandante partigiano, anche lui con un nome strano, Ulrico e nacque Giuseppe.

Mia mamma conobbe per caso mio papà, veterinario anche lui, e così si trasferì anche lei e si sposarono nella bella chiesa romanica di Arnad. Mio papà aostano vinse il concorso in due condotte, ma scelse Verrès per consentire a sua moglie di essere vicino alle sorelle.

Uso il plurale perché Agostina conobbe Pino, perito industriale di Rho trasferitosi in Valle per lavorare nella industria siderurgica di Pont-Saint-Martin Ilssa Viola, di cui poi divenne direttore, avendo due figli, Franco e a Luca. Infine sempre a Pont si trasferirono i due nonni per chiudere il cerchio.

Come avviene in tutte le famiglie, in quegli anni si sono incrociati gioie e dolori e noi cugini abbiamo ciascuno preso la nostra strada, seguendo con reciproca complicità la tristezza di genitori che ci hanno lasciati imboccata la difficile strada della senilità, ma per fortuna con lunghe vite che il destino ha concesso loro.

Ma la morte arriva ineluttabile e ora un ultimo filo di quel che restava della ragnatela di affetti è come se si fosse spezzata e ci si trova forse più soli, ma con ricordi che scaldano il cuore e cancellano ogni asperità.

Le lunghe estati fra spiaggia e vita domestica con la banda dei cugini sarebbero degne di racconti: un lessico familiare che piano piano sfuma nella memoria, come avviene per tutti.

Ha scritto il filosofo Andrea Emo: “La memoria cioè gli altri divenuti noi stessi”.