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14 dic 2024

Il menefreghismo sulla cultura

di Luciano Caveri

Noi della mia generazione e di quelle un po’ prima e un po’ dopo, quando ci si trova, discutiamo di come ci situiamo nel presente.

Capita così di incensarsi a vicenda nel dire quanto abbiamo cercato di fare del nostro meglio nella nostra vita. Ciò avviene in una logica difensiva rispetto ai j’accuse che ci colpiscono, quando ci viene scaricato come baby boomer - e fu l’ultima valanga demografica in Occidente - la responsabilità di tanti mali del mondo.

Sarà la Storia, usciti da certa giustizia sommaria, a dimostrare l’impegno che i nati dal 1946 al 1964, oggi pensionati o pensionandi, hanno messo per migliorare le cose, godendo certo di un periodo di progresso economico e di miglioramento delle condizioni di vita.

Fra gli elementi di crescita ci sono state l’istruzione e la crescita culturale e questo pare oggi un punto dolente. Scrive sul Corriere della Sera Paolo Di Stefano: “Gli ultimi dati Ocse, usciti martedì, rivelano che gli italiani tra i 16 e i 65 anni sono drammaticamente sotto la media globale nella capacità di comprensione testuale, nella elaborazione matematica, nelle abilità cosiddette di «problem solving». Qualche giorno fa si è saputo che, secondo un’indagine dell’Aie (associazione editori), nell’ultimo anno i lettori sono diminuiti e sono diminuiti anche i libri venduti: solo gli under 24 resistono sui livelli di lettura dell’anno scorso. Numeri disastrosi che non dovrebbero preoccupare solo i noiosissimi ceti intellettuali”.

Interessante l’uso dell’aggettivo “noiosissimi”, perché purtroppo questa finisce per essere la percezione quando si tocca questo tasto e si segnala il rischio di un livella mento verso il basso. E certe preoccupazioni rischiano di essere bollate come presunzione o snobismo.

L’articolo sulla questione è implacabile: “Eppure, il grave calo delle conoscenze culturali, le lacune dell’istruzione scolastica e la diffusione (segnalata più di dieci anni fa da Tullio De Mauro) dell’analfabetismo di ritorno (o funzionale) non sono mai all’ordine del giorno della politica, né a destra né al centro né a sinistra, se non, ogni tanto, in termini di formazione finalizzata al lavoro. Sono lontani i tempi in cui la cultura e la conoscenza erano valori in sé e per sé; e chi ne fa cenno rischia di apparire un vecchio babbione umanista ancorato alla tradizione, un nostalgico dei tempi andati, uno snob da torre d’avorio, magari un radical chic incapace di capire i problemi urgenti: crescita, occupazione, sicurezza eccetera, altro che cultura!”.

Eppure certa decadenza la si avverte e bisogna evitare di darne un’interpretazione legata al caratteristico atteggiamento di chi loda il passato, specie perché legato alla propria giovinezza e alla naturale propensione di esaltare quanto si è fatto.

Ma questa idea di una società al ribasso Di Stefano l’afferma e i politici - me compreso - hanno una responsabilità così esplicitata: “Che questo sia il sentimento diffuso, è dimostrato dal fatto che i politici italiani, specie quando sono in campagna elettorale, cioè sempre, di tutto parlano tranne che del bassissimo livello culturale della popolazione, ritenendolo un argomento che non scalda i cuori (cose-che-non-interessano-agli-italiani) e persino un po’ offensivo. Roba che non porta voti. E se porta vuoti irrimediabili, chissenefrega”.

Il menefreghismo rischia di essere un abisso in cui tutto è destinato a precipitare.

Don Lorenzo Milani scriveva: “Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande “I CARE”. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori: “me ne importa, mi sta a cuore”. È il contrario esatto del motto fascista “me ne frego” “.