Ogni tanto qualcuno mi avverte del fatto che su Facebook c’è chi mi critica anche in modo offensivo. Devo dire che non mi importa e non solo perché non sono per scelta su quel Social, ma aggiungo con tranquillità che da tempo ho deciso di non prendermela più di tanto.
Per altro alcuni di quelli che lo facevano anni fa sono passati a miglior vita o sono stati risucchiati via da loro vicende personali. Talvolta basta pazientare.
Certo molto è cambiato coi Social. Una volta le maldicenze da bar o da lettera anonima restavano nel loro cantuccio, ma con l’avvento dei Social c’è chi ci ha preso gusto e dedica parte della propria esistenza al dileggio, che immagino gli consenta di avere un’esistenza meno sfortunata. Se la terapia funziona, manifesto la mia umana comprensione.
Leggevo su Internazionale quanto scritto da Antoine Marie sul giornale australianoThe Conversation, che conferma che con il digitale più che mai tutto il mondo è paese. Marie così si presenta su un suo profilo: “Je suis spécialiste de psychologie politique, un domaine à la croisée des sciences politiques et des sciences cognitives. Mes recherches et mes conférences portent sur les fonctions stratégiques de la mésinformation politique (pensée complotiste, fake news), les mécanismes de la polarisation politique et les solutions contre celle-ci, les croyances extrêmes, la répression de la liberté d’expression et la politisation des débats scientifiques”.
Sostiene l’autore: “Un tempo i giovani appena diplomati o laureati sognavano di creare un social network che potesse avvicinare tra loro le persone. Quel sogno, oggi, è solo un ricordo lontano. Nel 2024 le piattaforme online sono infatti accusate di ogni genere di nefandezza: diffondono notizie false, sono usate dai russi e dai cinesi per destabilizzare le democrazie e attirano contatti per poi vendere i dati personali ad aziende poco affidabili. Il successo dei documentari e degli studi sulle gravi conseguenze sociali dell’attività online è una dimostrazione di questa convinzione. Una delle posizioni più critiche accusa le piattaforme digitali e i loro algoritmi di amplificare la polarizzazione politica e l’ostilità. Qualcuno ha addirittura sostenuto che nelle discussioni online “chiunque può diventare un troll” “.
Cita così un suo studio: “Abbiamo chiesto a più di 15mila persone di raccontarci le loro esperienze sui dibattiti avuti online a proposito di temi sociali. Le interviste sono state effettuate a gruppi rappresentativi in trenta paesi, sparsi sui sei continenti. Il primo risultato emerso è che i paesi in cui le persone manifestano più spesso ostilità sui social network (insulti, minacce, molestie) sono quelli meno democratici e in cui si registra la maggiore disuguaglianza economica, come la Turchia o il Brasile. Questo fenomeno sembra nascere dalle frustrazioni prodotte da ambienti sociali e regimi politici più repressivi.
Il nostro studio ha inoltre rilevato che le persone più inclini all’ostilità online sono anche quelle che tendono ad assumersi più rischi per affermare il proprio status. Questo tratto della personalità corrisponde a un orientamento verso il predominio, ovvero a una propensione a sottomettere gli altri al proprio volere, per esempio attraverso l’intimidazione”.
Ancora più a fuoco: ”In sintesi, l’ostilità politica online sembra essere in gran parte il prodotto dell’interazione fra tratti della personalità specifici e contesti sociali che reprimono le aspirazioni individuali. Questo significa che è la frustrazione associata alla disuguaglianza sociale a rendere le persone più aggressive, innescando la tendenza a considerare il mondo in termini di “noi contro di loro”. In questo senso, se davvero vogliamo creare un internet (e una società) più in armonia, dovremo risolvere il problema della disuguaglianza economica e rendere più democratiche le nostre istituzioni politiche”.
Trovo la teoria molto…sociologica e temo non tenga conto che gli odiatori attraverso dalla mia esperienza tutte le fasce sociali.
In effetti più avanti Marie allarga il cerchio: “I social network permettono di diffondere all’istante e fedelmente qualsiasi contenuto a milioni di persone (diversamente dalla comunicazione verbale, dov’è inevitabile un certo grado di distorsione), dunque consentono di disinformare o esasperare milioni di individui senza grande sforzo. Questa dinamica resta valida a prescindere dal fatto che la disinformazione sia diffusa consapevolmente o sia solo un effetto dei preconcetti politici di un gruppo specifico. Se alle interazioni sui social network spesso manca un certo grado di civiltà è anche perché offrono la possibilità di dialogare con persone estranee e anonime. Questa esperienza, esclusiva dell’epoca di Internet, riduce il senso di responsabilità ed empatia nei confronti dell’interlocutore, che non consideriamo più come un individuo ma come un esponente intercambiabile di una tribù politica. Le analisi recenti ci ricordano che i social network funzionano non tanto come uno specchio ma come un prisma deformante della diversità delle opinioni all’interno della società”.
Sempre peggio, aggiungendo: “I post sulla politica carichi di rabbia e offese sono generalmente scritti da persone più determinate a esprimere la propria posizione, più radicali rispetto al cittadino medio, a prescindere dall’obiettivo delle loro azioni (manifestare il proprio impegno, esprimere rabbia o convincere gli altri a sposare una causa politica). Anche quando rappresentano una piccola parte dei post sulle piattaforme, gli interventi moralistici e ostili tendono a essere promossi dagli algoritmi, che sono creati per diffondere contenuti capaci di attirare l’attenzione e innescare una risposta”.
Insomma: esiste un effetto tsunami, che funziona purtroppo anche per la diffusione di fake news, come vediamo quotidianamente.
Un giorno verrà in cui certi comportamenti da saloon del Far West saranno seriamente puniti e la foglia di fico del diritto d’opinione non proteggerà più, come un alibi troppo comodo, i “cattivi” sui Social.