Quando morì mio papà, per lungo tempo mantenni il suo numero del telefonino nella agenda del mio.
Una scelta probabilmente infantile, ma mi sembrava che fosse una sorta di flebile legame da non spezzare.
Capita poi, nello scorrere la medesima rubrica, di trovare altri numeri di persone scomparse. E succede persino che, in chissà quale successione familiare, da quel numero, ancora intestato a chi non c’è più, qualcuno guardi il mio profilo temporaneo di Whatsapp (per altro dedicato quasi sempre ad una visione scherzosa del mondo).
Il legame possibile con l’aldilà ha un fascino antico e l’evocazione dei morti ha radici antichissime nella negromanzia e cioè l’evocazione dei defunti a scopo divinatorio.
Ricorda Treccani: ”Era praticata da Babilonesi, Greci (mediante la nèkyia), Romani e anche dagli Ebrei, pur essendo estranea ai principi sanciti nella Bibbia, che la condanna a varie riprese. La Bibbia stessa, d’altra parte, cita l’episodio dell’evocazione dell’ombra di Samuele effettuata dalla pitonessa di Endor su invito del re Saul (I Re 28). Condannata dal cristianesimo, la negromanzia sopravvisse alla caduta dell’Impero romano e se ne trovano tracce (in dipendenza da testi astrologici e magici prevalentemente arabi) nel tardo Medioevo e nel Rinascimento. Esiste tuttora, sebbene sporadicamente e più o meno clandestinamente, nell’Africa equatoriale, nelle Antille, nel Tibet e anche presso sette occultistiche europee e americane. Caratteristiche negromantiche hanno alcuni aspetti dello spiritismo”.
Ancora oggi c’è chi, infatti, ricorre alle sedute spiritiche nella speranza illusoria di “parlare” con chi non c’è più e io stesso da ragazzino ho giocato con gli amici con il famoso piattino con le lettere dell’alfabeto, convincendomi che sono storie che, comunque la si pensi, è meglio lasciar perdere, perché si entra un terreno non solo irrazionale ma anche pieno di profittatori dei dolori umani.
Leggo ora su The Economist qualche ragionamento su di una novità che irrompe per un nuovo tipo di presenza umana del ”dopo di noi”, vale a dire la nostra identità digitale. Questa nostra ”vita online" genera una quantità crescente di dati e io, come tutti, lo faccio giornalmente. Molti sono usa e getta e vengono cancellati, che siano mail o messaggini vari, altri restano in circolo, come potrebbe essere questo mio Blog che qualcuno avrà mai la cura di “salvarlo” nei passaggi tecnologici che verranno in futuro.
Quel che è ormai certo è che in larga maggioranza quando qualcuno muore lascia dietro di sé un'enorme quantità di tracce, alcune deliberate (profili, post sui social, poste elettroniche), altre incidentali (ricerche, localizzazioni,fotografie). Poiché i dati non muoiono con la persona che li ha lasciati, il giornale inglese cita un politologo svedese Carl Ohman, che in un recente saggio ha definito il mondo di oggi come "post-mortale".
Nel senso che l’attuale epoca digitale ha già cominciato a rimodellare il nostro rapporto con i defunti e le tecnologie sempre più sofisticate potrebbero persino consentirci di chattare con qualche parente o amico morto persino con il suo volto e la sua voce ricostruiti, dialogando su temi vari e - penso nel mio caso come esempio- attingendo alle moltissime cose che ho scritto sui temi più disparati nel corso della mia esistenza, creando una evidente facilità nella profilazione dei miei pensieri e delle mie idee.
Ohman - spiega The Economist - ha cominciato così a interrogarsi su alcune questioni filosofiche. A chi appartengono i dati dei morti? I dati sono "creati" o sono una sorta di replica digitale di una persona? Quali obblighi impongono ai vivi? Gli storici compiono da sempre ricerche biografiche tra documenti che si dovrebbero considerare privati. Come regolarsi con i dati, che di fatto rappresentano ormai il più grande archivio del comportamento umano nella storia della nostra specie.
Argomento non semplice e che spiega con un esempio concreto quanto il mondo cambi per le tecnologie nuove e le conseguenze da esse derivanti.