So che ne ho già scritto, ma come si fa a non farlo.
Se per molto tempo fra noi adulti ci siamo lamentati reciprocamente dei telefonini e del loro eccesso di presenza nella nostra vita, oggi guardiamo come genitori e con una certa impotenza ad adolescenti che conoscono lo strumento sin dalla loro nascita e quelli più piccoli seguono a ruota. Ci torno con un articolo sul Foglio di Giulio Silvano, che parla delle tesi - nel frattempo riprese e approfondite da altri - di un autore americano che ho letto e ho già scritto di lui, ma repetita iuvant.
La premessa è una storia che abbiamo vissuto ed è la fascinazione per uno strumento di cui noi stessi siamo vittime: “Lo smartphone, come un coltellino svizzero, contiene gran parte degli oggetti che una volta si appoggiavano sul comodino o sulla scrivania e, come un pantagruelico buco nero, ha sostituito anche molte attività, diventando addirittura veicolo – vedi Tinder e altre app di incontri– delle notti di passione, dei matrimoni, per non parlare della quantità di nuovi mestieri che ha creato, grazie alle dirette social”.
E ancora più avanti: ”Si parla nelle aziende di “diritto alla disconnessione”, si portano in tribunale le mail del capo arrivate dopo l’orario di lavoro. “Da quando c’è internet non ci sono orari”, dice qualcuno. Ignorare le richieste lavorative mentre si cena non potrà più portare a ripercussioni. Proprio per l’influenza dello Smartphone in molti ambiti della vita quotidiana, ci sono infiniti studi sugli effetti di “melafonini” & co. sul nostro cervello”.
Poi nell’articolo si parla del libro di cui ho detto all’inizio ”The Anxious Generation” di Jonathan Haidt: “Psicologo sociale che ha studiato a Yale, Haidt parte dai dati. Dice che la depressione e l’ansia negli Stati Uniti, piuttosto stabili negli anni 2000, sono aumentate dal 2010 al 2019 di oltre il 50 per cento. Il tasso di suicidi tra gli adolescenti è aumentato del 48 percento, per le ragazze dai 10 ai 14 anni addirittura del 131 per cento. Per gli studenti americani, negli ultimi dieci anni, c’è stato un declino cognitivo visibile negli studi governativi sui risultati scolastici, in particolare in materie come matematica e comprensione del testo. Nella maggior parte delle nazioni sviluppate quelli della Generazione Z, i nati dopo il ‘96, soffrono molto più degli altri di ansia, depressione, autolesionismo rispetto a qualsiasi altra generazione di cui si hanno i dati. Declino della salute mentale, solitudine, assenza di amici, hype del lifestyle degli hikikomori, quelli che riescono a vivere una vita intera senza mai uscire dalla cameretta, dove stanno tutto il giorno davanti a Playstation e tv. Haidt, appunto, non è un luddista, e in un’intervista dice che adorava il suo primo iphone, comprato nel 2008. “Era incredibile, lo tiravo fuori se avevo bisogno di uno strumento. Se volevo andare dal punto A al punto B, c’era la funzione mappe, se volevo ascoltare la musica, ehi, ecco l’ipod. Era fantastico, e non era nocivo alla salute mentale”. Ma poi qualcosa è cambiato, “in rapida successione”, e l’iphone “è passato dall’essere il nostro servo a diventare il nostro padrone, almeno per molte persone”. Tra il 2008 e il 2010 ci sono stati degli sviluppi che l’hanno trasformato in uno strumento del demonio: l’arrivo dell’app Store, le notifiche aggressive tramite le quali le aziende cercano di attirare costantemente la tua attenzione, la fotocamera frontale, e poi l’arrivo di Instagram, vera mela del serpente, il primo social media costruito esclusivamente per essere usato sullo smartphone. E così da coltellino svizzero diventa “uno strumento di distruzione di massa" “.
Così argomenta Silvano: ”Dice Haidt che per gli adulti il problema è limitato, “possiamo gestirlo, così come abbiamo gestito la televisione”, ma per gli adolescenti di oggi la questione è diversa. Parla di ricablaggio dell’infanzia. E le femmine ne sono più vittima, i social e le dinamiche di attenzione dei device sfruttano di più le loro insicurezze. Haidt dice anche che bisogna differenziare bene tra smartphone (e social) e internet, perché “internet è meraviglioso”. Il professore propone un gioco: immagina un demone che ti appare davanti negli anni 90 e ti invita ad aprire tre scatole. Ne puoi aprire quante ne vuoi, ma ognuna di queste ti porterà via 15 ore della tua settimana. Apri la prima, è internet. Bene, utilissimo. Apri la seconda, sono ecco i social. Meno utili. E poi apri la terza, ed ecco lo smartphone. “Sei contento di averle aperte tutte e tre? Ora hai 45 ore in meno nella tua settimana”. E la cara vecchia forza di volontà dove la mettiamo? Lo psicologo racconta di chiedere ai suoi studenti: “Preferiresti un mondo in cui Tiktok non è mai stato inventato? La maggior parte dice di sì. Sono in trappola. E allora chiedo: perché non vi togliete da Tiktok? E loro rispondono sempre nello stesso modo: non posso, perché ce l’hanno tutti” “.
Una ultima citazione: “Haidt descrive uno scenario da Black Mirror dove i genitori oggi tendono a proteggere troppo i propri figli – paura della strada, dei cibi grassi, degli zuccheri, del linguaggio tossico, che si facciano male giocando – ma non si preoccupano per niente di proteggerli online”. Penso che non sia più così e, discutendo con i genitori dei ragazzini che come il mio sono usciti dalle Medie, esiste un insieme di reazioni scomposte fatto di divieti, limitazioni, grandi discussioni accese in famiglia e con loro, i piccoli tossici, alcuni già inviati da psicologi perché alle turbe adolescenziali ben note e perimetrabili si è aggiunto lui, il telefonino onnipresente, che cassa la loro socialità e li fa sprofondare in un mondo virtuale.
Si cerca di reagire, ma con un vago e triste senso di impotenza.