Appartengo alla generazione dei voti a scuola, che sono stati la normalità sino al 1977, quando ha cominciato a far capolino il giudizio più o meno articolato. Dapprima ciò avvenne con un affiancamento, poi in certi momenti con sostituzioni vere e proprie dei numerini che ci hanno fatto salire e scendere ai tempi in cui eravamo studenti.
Dico subito che milito - e non solo per chissà quale rimpianto -per i voti per la loro intrinseca chiarezza e ricordo con raccapriccio certe schede di valutazione che ho dovuto leggere come genitore. Meglio sani confronti con gli insegnanti che certi scritti gergali, che appartengono a un mondo che allontana la scuola dalla realtà con scelte linguistiche che spesso lasciano stupiti.
L’insegnante e scrittrice Paola Mastrocola, la cui esperienza e competenza sono evidenti così si è espressa su La Stamoa: ”I voti generano ansia negli studenti, la paura dei brutti voti favorisce le assenze e spinge a saltare interrogazioni, verifiche, esami. Un liceo di Roma ha sperimentato la scuola senza voti su modello finlandese e i risultati mostrerebbero una (ovvia! ) diminuzione dello stress e un (ovvio! ) aumento del benessere. La prima cosa che mi viene da dire è che manca il risultato cruciale, quello che riguarda il livello cognitivo e culturale raggiunto: d’accordo, i ragazzi liberati dai voti vanno a scuola più sereni, ma la loro preparazione si può dire pari a quella dei ragazzi che continuano a sottoporsi allo stress della valutazione?”.
Aggiunge ancora: ”Il secondo pensiero riguarda lo stress, questa parola che è entrata pesantemente nei nostri discorsi pedagogici e non, ed equivale a un incubo, a un mostro da combattere a ogni costo. Può darsi che la strada per una nuova scuola sia quella di eliminare i voti. Sicuramente è in sintonia con la richiesta generale collettiva, non solo dei giovani ma anche degli adulti, di una vita fondata sul benessere emotivo, dove ogni motivo di stress venga debitamente e accuratamente tenuto lontano. Ed è proprio questo che mi lascia perplessa, questa attenzione ormai spasmodica alle emozioni, e quindi una psicologizzazione (e medicalizzazione in termini patologici) ormai continua della vita quotidiana di tutti noi. Come avvertì giusto vent’anni fa il sociologo ungherese Frank Furedi, è in atto una «tendenza a reinterpretare in termini emotivi non solo le situazioni di difficoltà ma anche le normali esperienze», «ogni avversità viene vista come una minaccia diretta al benessere emotivo, e le delusioni quotidiane sono una minaccia all’autostima». Essere preoccupati diventa «ansia generalizzata», essere timidi diventa «ansia o fobia sociale» e non sapere cosa ci preoccupa diventa «ansia fluttuante». Il mio dubbio è questo: non è che chiamiamo stress quel che è semplicemente vivere? E non è che chiamiamo benessere emotivo quel che è calma piatta? Vivere è sottoporsi al rischio di un brutto voto a scuola. È rischiare che il ragazzo che ci piace ci rifiuti, che una convivenza non funzioni, che un amico ci tradisca, che in una gara di corsa arriviamo ultimi, che un esame medico si riveli devastante.
L’attesa, l’ansia di un referto, di una risposta, di una prova, di un concorso. Chi ci esenterà mai da tutto ciò? Vivere, in questo senso, è uno stress? Non credo, direi che vivere è un’avventura, un’alternanza continua di emozioni, dove non siamo mai in pace. Preferiremmo che la vita fosse solo timbrare ogni giorno il cartellino o, come tanti pensionati, portare fuori il cane alla stessa ora, sedersi su una panchina e sfogliare un giornale? Una perenne bonaccia? Non si va da nessuna parte, senza il vento. Che può spirare, come ben sappiamo, a volte favorevole e a volte contrario, e che quindi occorre saper prendere, mettendo di volta in volta la vela al gran lasco, al traverso o di bolina. Non sono sicura che eliminare ogni fonte di preoccupazione e ansia costruisca una generazione”.
Vivere nella bambagia è un apparentemente confortevole, ma evita di essere temprati ad una vita che resta, per chi più e chi meno, una corsa ad ostacoli con difficoltà da affrontare.
Così la l’ammonimento finale della Mastrocola è da leggere come se fosse una sentenza: ”Contribuiremo a far crescere quella che da qualche tempo viene detta la snowflake generation, una generazione di persone che di fronte a un voto, a un giudizio, a una critica o anche solo a un’opinione contraria alla loro, si sentono minacciati. E si sciolgono come un fiocco di neve al sole”.