Mi è capitato spesso di comparare la minuscola realtà valdostana se rapportata alla vastità dell’Europa, di cui sentiremo parlare tanto anche in Valle d’Aosta e in Italia per le imminenti elezioni europee e questo sempre avverrà purtroppo in prevalenti logiche di politica interna o di ambizioni personali e dunque per altri scopi e non per chissà quale interesse comunitario o afflato europeista.
Tuttavia questa cosa dell’infinitamente piccolo e dell’enormemente grande è sempre stata uno stimolo per chi pratichi, come ho sempre fatto, un giudizioso e pacifico nazionalismo valdostano, mai giacobino e sempre ispirato alla logica di fratellanza, che è alla base del federalismo come pensiero e non solo come meccanismo istituzionale. Ma nel rapportarsi con i livelli più grandi di governo e con culture oggettivamente più vaste ci dovrebbe essere per noi – scomodo Immanuel Kant… – un imperativo categorico. Nel senso che nel confrontarci con gli altri è assolutamente necessario avere una piena conoscenza consapevole di sé.
Per evitare di volare troppo alto, ridiscendo nelle questioni pratiche. Mi accorgo di come la conoscenza stessa della “valdostanità” nelle sue espressioni più varie non sia un patrimonio sempre condiviso nella nostra comunità, travolti come siamo da una globalizzazione utile che diventa sterile se finisce per zittire elementi fondanti della nostra identità. Può essere che la scuola – ce lo diciamo da tempo – non abbia raggiunto l’obiettivo di trasmettere elementi di base della civilisation Valdôtaine. Si tratta di una vecchia questione, che spesso è stata trattata con un equivoco di fondo da parte di chi, in buona o cattiva fede, segnalava la possibilità che questa trasmissione di conoscenze varie fosse null’altro che una specie di indottrinamenti ad uso politico. Tesi ridicola e faziosa. Una conoscenza della cultura, della storia, della geografia sono una necessità per capire dove si vive e quali siano le radici da cui si proviene. Non ci sarebbe nulla di peggio di sentirsi, come dev’essere, cittadini del mondo, ma in contemporanea essere come smarriti a casa propria con una logica di spaesamento rispetto a dove si vive, quando non si conoscono elementi essenziali che caratterizzano il proprio territorio.
Questi pensieri li ho sempre avuti e ho sempre cercato di trasmetterli alle nuove generazioni, sapendo di come la situazione della conoscenza della propria realtà sia destinata ad allontanarsi in questa dimensione digitale, assorbente e astratta, che investe i nostri figli più piccoli in una logica sempre più estraniante.
Ci pensavo con un esempio concreto di queste ore. Domenica sarò a Machaby di Arnad, luogo che conosco bene, situato in quelle traverse che sono state per millenni una nicchia di civiltà alpina e la cui particolarità mi è nota anche per i racconti di mio papà veterinario che negli anni Cinquanta lavorava anche in quelle zone oggi in larga parte spopolate. L’occasione per risalire in quelle alture, con meravigliosi castagneti, è una festa che celebrerà la fine dei restauri del santuario dedicato alla Madonna delle nevi. Per raggiungere l’edificio religioso c’è la strada militare recentemente restaurata che poi prosegue sino raggiungere il forte di Bard, passando anche dal piccolo Forte Lucini, oggi ostello, costruito intorno al 1880-1885 come caserma difensiva sui resti di un forte militare risalente al XVII secolo. La costruzione si trova a pochi passi dal borgo di Machaby, che viene oggi raggiunto dagli scalatori che risalgono la parete rocciosa della Corma che parte in verticale dal fondovalle, Questo sui luoghi è quanto si ritrova nel bel sito guidaturisticaaosta: “La tradizione dell’esistenza di un edificio religioso a Machaby risale al 1503, un edificio di dimensioni più ridotte risetto all’attuale che fu riedificato nel 1687. Nel 1689 vennero poi aggiunte le navate laterali e la sacrestia. (…) All’interno del santuario oggi è possibile ammirare l’altare maggiore del XVII secolo; gli altari delle navate laterali risalenti al XVIII secolo ed il pulpito in pietra. Gli interni sono stati riccamente decorati nel 1859 dai fratelli Artari, noti pittori di Verrès. Il Calvario in pietra sul piazzale è datato 1693, mentre il porticato e il campanile risalgono alla prima metà del Settecento.Dietro al santuario sorgono inoltre 15 piccoli oratori con i Misteri del Rosario. Nel piazzale antistante il Santuario di Machaby vi sono due statue in pietra raffiguranti San Grato e San Girolamo, poco lontano due edifici realizzati per ospitare i pellegrini”.
Interessante è capire come, nei diversi santuari mariani della Valle d’Aosta, si celebrasse, con provenienza di pellegrini da tutta l’area del Monte Bianco, questo culto della Madonna, rappresentato dai molti ex-voto, segno tangibile del ringraziamento per le intercessioni che portavano a miracolose guarigioni, compresa la pratica – vietata poi dalla Chiesa – di portare proprio a Machaby neonati nati morti prima del battesimo che, per intercessione della Madonna, avevano - secondo le credenze popolari - un ultimo e improvviso alito di vita che consentiva loro di ottenere il primo sacramento. Insomma un complesso di pratiche, espressione di fede popolare, uno degli elementi fondativi dell’identità valdostana.
Concludo dallo stesso sito con una leggenda: “Secondo la tradizione nei pressi del santuario di Machaby, si apriva una caverna, dove una strega vipera ed un diavolo con sette teste tenevano rinchiuse le vittime destinate al sabba. L’ultima fanciulla rapita da questi esseri malvagi, ritrovandosi rinchiusa con altri poveretti li esortò a raccomandarsi a Nostra Signora di Machaby, unendosi alla sua preghiera. A questa invocazione la Madonna delle Nevi si mostrò sorridente ai prigionieri, e indicò loro un punto da cui penetrava un filo di luce. La pietra lì si sgretolava facilmente ed i reclusi, rimossi alcuni massi, riuscirono a fuggire”.
Il Bene e il Male: il grande rovello della vita umana.