Sono andato al cinema e ho seguito con attenzione e partecipazione emotiva le tre ore filate di “Oppenheimer”, l’ultimo film di Christopher Nolan. Questa volta mi ero documentato bene, comprando il libro da 1200 pagine di Ray Monk, intitolato “Robert Oppenheimer-l’uomo che inventò l’Atomica” e, a complemento, leggendo un’altra biografia di uno dei protagonisti di quegli anni e del progetto della bomba, scritto da David N. Schwartz su Enrico Fermi, altro tomo da 500 pagine. Fermi nel film appare in un breve passaggio, quando scherza prima della prova decisiva sul funzionamento della bomba rispetto ad un’ipotesi, rivelatasi infondata dai calcoli effettuati, che bastasse una sola esplosione per far scomparire la Terra. Mentre il film ha, per ovvie ragioni, dovuto scegliere un fil rouge narrativo assai divulgativo e facendo scelte che non potevano essere troppo minuziose, il libro sul fisico americano – così come il libro su Fermi e sulla sua scuola romana, prima della sua scelta di andare negli Stati Uniti – non solo traccia il percorso umano e professionale dell’autore, ma ricostruisce quello scenario interessantissimo di rapporti fra scienziati di tutto il mondo negli anni precedenti la Seconda guerra mondiale e durante il conflitto. Una serie di personalità straordinarie, in una fitta rete di successi scientifici e di scoperte nel campo della Fisica che rivoluzionarono questa branca della conoscenza umana. Il tutto, alla fine, legato alla costruzione e all’uso sul Giappone della bomba atomica in un crescendo che il film esalta. Raccontando poi la parabola personale di Oppenheimer che da coordinatore del progetto che portò alla bomba e come tale esaltato come eroe americano si trovò poi nel dopoguerra vittima delle persecuzioni ideologiche del maccartismo con l’accusa ridicola di essere spia dei sovietici. I libri hanno un versante assai difficile come piena comprensione per me, ripreso solo in termini suggestivi nel film, che riguarda il puzzle di ricerche che tra successi ed insuccessi porta verso la Fisica moderna ad una vera e propria rivoluzione, che ha però componenti tecniche non sempre semplici da comprendere. Tutto ciò in una logica cosmopolita che sposta ad un certo punto la ricerca mondiale dall’Europa agli Stati Uniti per via della progressiva fuga di ricercatori illustri del Vecchio Continente sulla spinta del nazismo, che aveva nel mirino le minoranze ebraiche perseguitate con le leggi razziali. Ma torniamo ad Oppenheimer, personalità contradditoria, di grande levatura culturale, con diversi complessi che pesavano sui suoi comportamenti, che sfociano infine in questo ruolo motore a Los Alamos nel New Messico, dove sorge il laboratorio, fra scienza e forze armate, che insegue la bomba atomica in una competizione a distanza con i nazisti, popanch’essi all’opra su queta arma letale. Ce la faranno gli americani, ma la bomba verrà adoperata per chiudere la guerra con il Giappone, evitando rischi e perdite causate dell’invasione dell’isola. Ma la scoperta – e la consapevolezza emerge ancora prima del primo scoppio – scuote la coscienza di molti e fra questi dello stesso Oppenheimer, ben conscio subito e nel periodo successivo dell’equilibrio del terrore che abbiamo vissuto durante la “Guerra fredda” e che ancora oggi, a distanza di tanti anni, pesa come una terribile minaccia sul futuro dell’umanità. Interessante quando Oppenheimer incontra alla Casa Bianca il presidente degli Stati Uniti Harry Truman. Oppenheimer disse davvero a Truman di sentirsi «le mani sporche di sangue». Il presidente disse ai suoi collaboratori: «non portate più quel piagnone nel mio ufficio». Insomma, non serviva più e un’ombra si allungò su di lui per il rifiuto di lavorare sulla bomba ad idrogeno. Il film ripristina il suo ruolo e lo fa senza eccessi agiografici, restituendo – specie in una scena inventata di un incontro con Albert Einstein, che avvenne invece in altre circostanze – la figura di un uomo che, grazie ad un vasto staff, ha segnato un passaggio forte nella storia dell’umanità. Da allora nulla è più stato come prima. Oppenheimer morì nel 1967 soli 62 anni per un cancro alla gola e le sue ceneri vennero disperse nel mare delle Isole Vergini. Fermi, uomo decisivo per le sue ricerche, morì nel 1954 a 53 per un cancro causato assai probabilmente delle molte manipolazioni di materiale radioattivo. In un suo celebre discorso nel 1947 disse e indicò una strada: ”La professione del ricercatore deve tornare alla sua tradizione di ricerca per l'amore di scoprire nuove verità, dato che in tutte le direzioni siamo circondati dall'ignoto e la vocazione dell'uomo di scienza è di spostare in avanti le frontiere della nostra conoscenza in tutte le direzioni, non solo in quelle che promettono più immediati compensi o applausi”.