Viviamo in un mondo che tende a semplificare le cose e e la brevità diventa la regola. Da sempre esistono gli slogan che dettano la linea. La forza dello slogan la si capisce da bambini. Ancora oggi ricordo certi slogan del Carosello della mia infanzia. Tipo: “Brava brava Mariarosa” (lievito Bertolini); “Che c’ho scritto… JoCondor?” (Nutella); “È un’ingiustizia, però!” (Calimero per Ava); “È già mezzogiorno, mezzogiorno di cuoco” (carne Montana). In politica ho spesso lavorato sugli slogan delle campagne elettorali, cercando la giusta chiave di lettura a favore dell’opinione pubblica. Ricorda Federico Faloppa su Treccani la storia della parola “slogan”: “Derivato dallo scozzese (slogorne o sloghorne), voce a sua volta derivata dal gaelico sluaghghairm «grido di guerra», composto di sluagh «esercito» e gairm «grido», il termine è entrato in italiano – attraverso l’inglese – solo all’inizio del ventesimo secolo. Prima, come ricorda l’autore della voce Slogan nell’Enciclopedia dell’Italiano Treccani Andrea Viviani, in italiano si usavano sentenza e motto per esprimere lo stesso concetto, ovvero «formula sintetica, espressiva e facile da ricordarsi, usata a fini pubblicitari o di propaganda»”. Oggi constatiamo come certe parole diventino slogan sinteticissimi e la loro fortuna nasce e tramonta in un battibaleno. Pensiamo al destino di “resilienza”, termine ormai abusato, il cui acme è nell'acronimo "PNRR", che per esteso suona come ”Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza" “. Simona Cresti sulla "Treccani" cita sul tema della parola-slogan un altro autore: «Stefano Bartezzaghi la definisce "parola-chiave di un'epoca", sottraendola al rapido declino cui sarebbe destinata in quanto semplice "parola alla moda". "Resilienza" assume un valore simbolico forte in un periodo in cui l'accesso interpretativo più frequente alla condizione economica, politica, ecologica mondiale è fornito da un'altra parola, "crisi": lo "spirito di resilienza" rappresenta la capacità di sopravvivere al trauma senza soccombervi e anzi di reagire a esso con spirito di adattamento, ironia ed elasticità mentale”. Esce dal palcoscenico “resilienza” e arriva, crescendo piano piano in potenza, la parola prezzemolino “sostenibilità” e si sta facendo con una tale prepotenza da diventare invadente e dunque antipatica. Tutto ormai è “sostenibile”: dalle etichette delle merci più varie sulle scansie dei supermercati ai bilanci aziendali che devono dimostrare nei bilanci di sostenibilità quanto siano bravi nel complessivo rispetto per l’Ambiente. In realtà “sostenibilità” è una vecchia storia, che gode di una ritrovata giovinezza, perché il concetto cominciò a diffondersi negli anni ‘80 e venne adottato ufficialmente a Stoccolma, in Svezia, nel rapporto “Our Common Future” pubblicato nel 1987 dalla Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo, del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente. La Conferenza di Stoccolma ha attirato l’attenzione internazionale principalmente sulle questioni relative al degrado ambientale e all’inquinamento. L’attuale concetto di sostenibilità cominciò a diffondersi negli anni ‘80 e venne adottato ufficialmente a Stoccolma, in Svezia, nel rapporto “Our Common Future” pubblicato nel 1987 dalla Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo, del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente. Successivamente, nel 1992 alla Conferenza di Rio de Janeiro sull’ambiente e lo sviluppo, detta anche Il Summit della Terra, i capi di Stato mondiali si sono riuniti affrontando per la prima volta a livello globale le emergenti problematiche ambientali. In questa occasione, il concetto di sviluppo sostenibile è stato consolidato come “uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri”. Da allora, il termine sostenibilità è stato incorporato e utilizzato dalla politica, dalla finanza, dai mass media e in mille altre attività. Sino all’attuale popolarità, prima che finisca anch’essa nel cassetto polveroso delle parole abusate, quando diventano troppo di moda.