Anche io mi sono occupato, quando ero un giovane giornalista, della cronaca nera, come si chiama in linguaggio giornalistico per un’analogia fra il colore scuro con drammi e tragedie mai a lieto fine. Tanti incidenti stradali, rari omicidi, qualche rapina, molti soccorsi in montagna, la giudiziaria nei suoi diversi aspetti: si è trattato per me di un’esperienza molto umana, che mi ha confermato nella pratica la banale constatazione di quanto le cattive notizie facciano…notizia. E, nel mio piccolo, ho sempre cercato di raccontare vicende difficili con garbo privo di sensazionalismo per rispetto a quel grumo di dolore e talvolta di follia che avvolge la morte. Con l’evidente constatazione, anche nella recente vicenda di questo Alessandro Impagnatiello che ha barbaramente ucciso la compagna Giulia Tramontano al settimo mese di gravidanza, che si supera ormai con troppa facilità la soglia che trasforma il racconto in un giornalismo cialtrone e inutilmente curioso e indagatore. Raccontare le vicende di “nera” ci sta, ma vedere chi ci sguazza fa venire il voltastomaco per la ricerca voyeuristica del particolare macabro o dell’ inutile pettegolezzo. “Chi l’ha visto?” - trasmissione nata con buone intenzioni - è diventato un programma che troppo spesso scava nel sottobosco della “nera”. Ha scritto anni fa il giornalista e scrittore Michele Serra: «Il sospetto, dunque, è che l'angosciosa percezione di un salto di qualità del male e della violenza sia dovuta soprattutto a una assai più diffusa conoscenza di crimini sempre avvenuti, ma solo oggi diventati materia prima quotidiana di un sistema mediatico cresciuto in maniera esponenziale. Ogni frammento di orrore viene ingigantito, ogni urlo di dolore amplificato, su ogni singola variazione attorno all'orrendo tema della violenza dell'uomo sull'uomo vengono allestiti fluviali dibattiti. L'esile scia di sangue che i cantastorie trascinavano per piazze e villaggi è diventata il mare di sangue che esonda dal video: ma è sempre lo stesso sangue, probabilmente anche la stessa dose pro-capite, solo con un rendimento "narrativo" moltiplicato per mille, per un milione, per un miliardo di volte». Voler ispezionare gli orrori offre forse un aspetto consolatorio rispetto alla propria vita, ma esiste qualcosa di malato nel vero e proprio accanimento che tracima e trasforma - il delitto di Cogne fece scuola - in discussioni oziose, ricostruzioni avvilenti, mancato rispetto per le vittime. Fu Intendiamoci: una cronaca asciutta, circostanziata ma rispettosa non è inutile in sé. Lo ricordava ieri sul Corriere Dacia Maraini: ”Perché raccontare le violenze sulle donne, naturalmente in modo non morboso, aiuta a creare coscienza, fa capire quanto sia pericoloso non denunciare, non tenere le distanze da chi si mostra possessivo in maniera maniacale e morbosa. È vero, da quanto mi dicono, che sui social molti approfittano di queste occasioni per versare valanghe di fango sulle donne. Ma non identificherei i social con l’Italia intera. Ormai tutti hanno capito che si tratta di uno sfogatoio anonimo e meschino da prendere con le molle”. Già questa violenza maschile, diventata un fil rouge insanguinato quasi quotidiano, fa orrore e apre a riflessioni inquietanti su noi uomini e sulle donne che subiscono la loro violenza. Così vale l’appello accorato della Maraini: “Teniamo presente che le donne spesso sono sole, plagiate, divise fra il bisogno di mantenere unita la famiglia e la voglia di ribellarsi all’interno di una comunità che spesso le condanna a priori. Perciò insistiamo sulla necessità di raccontare, di fare sapere senza vergogna quello che succede in molte famiglie italiane e denunciare prima che sia troppo tardi”.