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08 mag 2023

È davvero stagione di riforme?

di Luciano Caveri

Tutto invecchia e questo vale anche per la Costituzione vigente in Italia dal 1948. Non che modifiche non ci siano state: penso al Titolo V in tema di regionalismo cambiato anni fa e ad altre correzioni minori puntuali nel tempo (l’inserimento appena fatto dei temi ambientali nell’articolo 9 è stato scritto con i piedi). Falliti per il rifiuto popolare due testi di rinnovamento con cambiamenti più profondi, voluti prima da Berlusconi e poi da Renzi, per il no al referendum popolare confermativo, restano testi vari proposti nelle tre Bicamerali per le riforme, affaccendate a suo tempo sulla Costituzione. La prima, Bicamerale Bozzi, operò dal 1983 al 1985, la seconda, la De Mita-Iotti, dal 1993 al 1994 (e ne fui membro attivo), la terza, la D’Alema, dal 1997 (compartecipai ai successivi lavori parlamentari). Io stesso presentai alla Camera, in quegli anni, un testo di riforma costituzionale. Il titolo era “Norme per la costituzione di uno Stato federale", una proposta provocatoria - rimasta purtroppo solo negli atti parlamentari - per una nuova Costituzione. La presentai - a nome dell'Union Valdôtaine - dapprima nell'ottobre del lontano 1991 e poi nelle successive tre Legislature. Fu quella riforma di stampo federalista un unicum, nel senso che, nel deserto del federalismo italiano, che è fatto di piccole organizzazioni autoreferenziali e immobili con peso politico esprimibile in grammi, quella almeno fu un atto forte e significativo di tentativo infruttuoso di svolta radicale della Repubblica. Ora da Giorgia Meloni è stata annunciata, su iniziativa diretta della Presidenza del Consiglio, un disegno di legge sul premierato con elezione popolare, dunque una svolta presidenzialista. Non è la prima volta che avviene m, ma questa volta Il centrodestra, con qualche appoggio ulteriore, ha i numeri per far passare in fretta la modifica. Tant’è che la stessa Meloni presenterà un testo alle opposizioni già la settimana prossima e c’è chi sostiene che lo faccia per distogliere l’attenzione dai gravi problemi economici irrisolti. Bisogna leggerlo e studiarlo questo testo. Ma già sul tema, due anni fa, scrisse il costituzionalista Michele Ainis un articolo riassuntivo di una vecchia storia: ”Adesso è riemerso, ma non è la prima volta. Nel 1947 si schierò per il modello americano Piero Calamandrei, costituente fra i più illustri. Furono presidenzialisti Salvemini a sinistra, Pacciardi e Maranini a destra. Finché nel 1987, al congresso di Rimini, si dichiarò presidenzialista un partito di governo: quello socialista, guidato da Bettino Craxi. Dopo d'allora quintali di carte e commissioni, che raggiunsero l'apice un mercoledì di giugno del 1997, quando la Bicamerale presieduta da D'Alema mandò al ballottaggio l'elezione diretta del Presidente della Repubblica o quella del presidente del Consiglio. Vinse la prima, e tutti furono felici, tanto un sistema vale l'altro. Ma il presidenzialismo all'italiana ha collezionato innumerevoli varianti, come il virus del covid-19: per esempio lo pseudo-presidenzialismo della riforma costituzionale approvata dalle Camere nel 2005, ai tempi del terzo governo Berlusconi, e respinta poi dagli elettori, con il referendum dell'anno successivo. O l'elezione diretta del capo dello Stato, proposta da Fratelli d'Italia all'avvio della legislatura in corso, e accompagnata (nel 2019) da una raccolta di firme nelle piazze. Una riforma superpresidenziale, giacché in questo caso il Presidente della Repubblica presiede anche il Consiglio dei ministri: due presidenti in un corpo solo.
E tuttavia non è una coincidenza se adesso FdI viaggia in testa nei sondaggi d'opinione. Evidentemente quel partito ha orecchie più sensibili, sa ascoltare gli umori del Paese. Che in questa stagione d'emergenza reclamano un capo, un condottiero cui affidarsi. Comprensibile, anche se allarmante: "la democrazia è assenza di capi", diceva Kelsen, e prima di lui Platone. Ma dopotutto non è il caso di chiamare i partigiani. Vero, noi italiani spesso ci votiamo a un salvatore della Patria; però soltanto per il gusto d'impiccarlo a testa in giù. Accadde a Mussolini, e dopo di lui - metaforicamente - a molti leader politici di cui per un momento ci infatuammo: Craxi, Monti, Renzi, lo stesso Presidente Napolitano. E' il nostro vaccino nazionale contro il virus della capocrazia. Gli italiani sono per la tirannide, ma temperata dal tirannicidio”. Riflessioni che fanno capire il cammino della Meloni e la sua fretta. Intanto, in questo stesso momento, le Autonomie speciali si stanno confrontando su spinta del sudtirolese Arno Kompatscher su di una proposta comune di rilancio degli Statuto Speciali in parallelo con il varo dell’autonomie differenziata per le Regioni Ordinarie. Certo il SüdTirol è la sola Speciale a godere della garanzia internazionale e poche ore fa il Cancelliere austriaco è stato a Palazzo Chigi proprio con una delegazione sudtirolese, quanto mai era avvenuto dal dopoguerra! Vedremo se il tentativo di fronte comune, che finirebbe per incrociare il presidenzialismo, riuscirà. Tema complesso ma essenziale per gli Statuti speciali è quello di prevedere l'intesa per la loro modifica. Senza pariteticità ogni riforma complessiva pagherebbe la mancanza di una logica pattizia e il Parlamento potrebbe stravolgere qualunque proposta proveniente dalle Autonomie speciali. Una riforma potrebbe prevedere questo meccanismo di tutela per il futuro, trovando intanto accordi politici per farla avanzare senza i rischi appena evocati. Scenario in verità complesso, in cui sarà interessante vedere amici e nemici.