Dopo tanti mesi caldi e a tratti torridi - che hanno segnato l’ennesimo record - il ritorno del freddo è una benedizione. Fa sorridere amaro scriverlo, visto che mai come quest’inverno i costi del riscaldamento peseranno gravemente. Tuttavia, sappiano bene che sull’altro piatto della bilancia ci sono i danni e le preoccupazioni del riscaldamento globale e viene in mente subito la stagione invernale scorsa con poca neve e poca acqua. Per non dire di quanto inciderà sugli assetti ambientali e sociali l’orizzonte futuro con profonde trasformazioni e forti impatti, specie se non si invertirà la corsa. Fra le discussioni da conversazione standard quelle sul caldo e il freddo, anche nella quotidianità, sono un classico. Con la constatazione che ci si lamenta comunque: del caldo quando fa caldo e del freddo quando fa freddo. Ma è vero - autentico discorso da caffè al bar al mattino - che al freddo si può reagire con la giusta attrezzatura. Specie il “nostro” freddo alpino che è “secco” e mi vien da sorridere a pensare per contro a certe giornate nebbiose a Torino, quando cominciai a fare il giornalista, con nebbie fitte mai più viste e soprattutto quella umidità che ti entrava nelle ossa, benché imbacuccato. E pensavi a consolazione a quel freddo d’alta quota, con gli sci ai piedi, con la neve che scricchiola sotto le lamine o a quell’impagabile sensazione della neve fresca che ti dà quel tocco inebriante nel suo turbinio, mentre scendi galleggiando nel gelo. A ben pensarci è un po’ di anni che non ci sono più quelle temperature sotto zero nel fondovalle valdostano che trasformavano i prati in una tundra e lo stesso vale per quelle nevicate che anche a quote più basse congelavano il paesaggio. Il freddo nei miei ricordi ha anche un aspetto tragico. Quando mi sono trovato per la prima volta, nel cuore dell’inverno con un’amica polacca a visitare il campo di sterminio di Auschwitz. Durante la seconda guerra mondiale, tra il 1940 e il 1944, furono sterminati là dentro, in quella macchina di morte, più di 1 milione di prigionieri, in larghissima aparte ebrei. Un luogo spettrale e doloroso che mi ha colpito in profondità. Il freddo era terribile in questo mondo in bianco e nero, così terribile perché evoca drammi umani e la violenza allo stato puro che si manifesta ancora come genius loci. Lì il freddo non era solo un fatto climatico, ma una specie di inquietante presenza nel percorrere quelle strade interne, vedere quegli edifici grigi, guardare le vetrine con i giocattoli, gli occhiali, le protesi di quelle persone poi volate via nel fumo dei forni crematori, cui vennero prima persino strappati i denti d’oro. Orrore e crudeltà. Ha scritto Primo Levi su quei luoghi: ”Come questa nostra fame non è la sensazione di chi ha saltato un pasto, così il nostro modo di avere freddo esigerebbe un nome particolare. Noi diciamo “fame”, diciamo “stanchezza”, “paura” e “dolore”, diciamo “freddo”, e sono altre cose. Sono parole libere, create e usate da uomini liberi che vivevano, godendo e soffrendo, nelle loro case. Se i Lager fossero durati più a lungo, un nuovo aspro linguaggio sarebbe nato”. Parole come macigni. Ma, per carità, finiamo in allegria con un consolatorio Gianni Rodari: ”Bollettino meteorologico Italia sottozero. Lo stivale è ghiacciato. Sta la neve sul Vesuvio come panna sul cioccolato. A Roma i busti di marmo del Incio battono i denti. I gatti del Colosseo a Roma, battono i denti. Si pattina sul Po e sui maggiori affluenti. E’ gelata la coda di un asino a Potenza. Le gondole di Venezia sono a letto con l’influenza. Un pietoso alpinista è partito da Torino per mettere un berretto sulla testa del Cervino. Ma dov’è, dov’è il mago con la fiaccola fatata che porti in tutte le case una calda fiammata?”.