Mentre la politica valdostana, ma non è la sola perché l’instabilità sembra ormai insita nella democrazia, arranca alla ricerca di un equilibrio che eviti le seconde elezioni anticipate, gli astensionisti sono e restano dei desaparecidos. Il termine forse non è felice, ma è vero che se ai non votanti aggiungiamo le schede bianche e nulle questo esercito di rinunciatari è in mezzo a noi. Chissà quanti ne sfioro ogni giorno nei tanti incontri che faccio sul lavoro e nel tempo libero. Tranne rari casi, ma sono quelle quasi sempre persone bizzarre che se la pigliano genericamente con la politica e i politici, nessuno - dico nessuno! - mi ha mai affrontato, dicendo pacatamente: “Io non voto più!”. Sarebbe davvero interessante, ma tecnicamente impossibile ormai perché la privacy impedisce di sapere chi ormai snobba il voto, poter scavare di persona nel fenomeno. Incontrare chi ha deciso di non partecipare a quel momento del voto, di quel suffragio universale che è stato così difficile e sofferto da raggiungere. Una conquista mica da ridere, se pensiamo a quanti regimi dittatoriali ci sono nel mondo, compresi quelli che usano le votazioni come beffa. Scorrendo l’ottima sintesi della Treccani, ricordo come per la nostra Valle d’Aosta valeva, sino alla proclamazione del Regno d’Italia, la legislazione sarda (Regio editto n. 680/1848; R.d. n. 3778/1859), estesa al nuovo Stato unitario (l. n. 4385/1860), che prevedeva un suffragio particolarmente ristretto (circa il 2 per cento della popolazione) e combinava alti requisiti di censo e di capacità, oltre al requisito di saper leggere e scrivere. Un primo allargamento del suffragio è stato operato con la l. n. 593/1882, che abbassò l’età minima da venticinque a ventuno anni ed ha ridotto significativamente i requisiti di censo a favore di quelli di capacità (l’aver compiuto con buon esito il corso elementare obbligatorio), portando il rapporto tra elettori e popolazione al 7 per cento. Un più cospicuo allargamento del corpo elettorale (fino a circa il 23 per cento) si ebbe con la l. n. 665/1912, che introdusse il cosiddetto suffragio quasi universale maschile: a seguito di questa legge, parteciparono al voto tutti i cittadini maschi di età superiore ai ventuno anni che avessero superato con buon esito l’esame di scuola elementare e tutti i cittadini di età superiore ai trenta anni indipendentemente dal loro grado di istruzione. Il suffragio universale maschile vero e proprio fu introdotto con la l. n. 1985/1918, che ammise al voto tutti cittadini maschi di età superiore ai ventuno anni, nonché i cittadini di età superiore ai diciotto anni che avessero prestato il servizio militare durante la Prima Guerra mondiale. Il voto alla donne venne riconosciuto, invece, con il d.lgs.lgt. n. 23/1945. Dopo le prime elezioni comunali, questo allargamento interessò nel 1946 il referendum fra Monarchia e Repubblica e in contemporanea l’elezione dell’Assemblea Costituente. Da allora il fatto più significativo è stato l’abbassamento a 18 anni del diritto di voto, essendo questa la maggiore età, valida ormai per tutte le elezioni, Senato compreso. Insomma: un percorso ad ostacoli, che incappò anche nelle norme restrittive del diritto di voto di epoca fascista, e non a caso si evocano i valori della Resistenza come le basi per il ritorno ad un voto libero e il suo rafforzamento con il voto alle donne. Resta il fatto che oggi la fuga dal voto ha superato quei livelli endemici di astensionismo e questo non solo svuota le urne, ma suona come un campanello dall’allarme sul funzionamento di un meccanismo essenziale della democrazia. Questo risulta particolarmente grave laddove, come da noi, la comunità è piccola e rischia di sgonfiarsi quel meccanismo partecipativo che sostanzia anche l’Autonomia speciale, che non è affatto un’acquisizione, pur imperfetta, ottenuta per sempre. Anzi…