L'intolleranza verso gli immigrati è un segno di inciviltà. Ma non lo è neppure certo buonismo verso fenomeni gravi che si registrano in modo crescente e che dimostrano come il modello d'integrazione non funzioni. Per anni abbiamo preso di mezzo i francesi per la violenza senza controllo nelle loro banlieu, talvolta sfociata in fenomeni di islamismo radicale e ora si scopre che un certo numero di "seconda generazione" nati in Italia si raccolgono in bande - e non solo nelle grandi città - con azioni che devono preoccupare. Non sapevo bene come scriverne, in presenza di episodi allarmanti anche in Valle d'Aosta, perché c'è sempre il rischio di essere equivocati e trovarsi bollati come xenofobi o razzisti dai censori del "politicamente corretto". Invece, è proprio mettere la testa sotto la sabbia o rifarsi a dichiarazioni generiche alla "love and peace" che consente, a chi lo vuole fare, di generalizzare in maniera distorta e di sfruttare paure e indignazione.
Per cui a leggere Beppe Severgnini sul "Corriere" ho tirato un sospiro di sollievo. Scrive su "Italians": «La destra condanna, la sinistra divaga; la gente s'arrabbia, poi passa oltre. Ecco come l'Italia gestisce l'immigrazione. Stiamo andando velocemente contro il muro, mentre gli autisti - i nostri leader, i partiti che abbiamo votato - litigano sulla velocità del tergicristallo». Poi uno degli ultimi episodi, quelli svoltosi con un raduno di ragazzi di colore che hanno rivendicato la loro "africanità" in un scorribanda diventata esemplare: «Partiamo dalle scene vergognose viste il 2 giugno sul Garda, seguite dalle molestie subite da ragazze minorenni sul treno Verona-Milano. La discussione che ne è seguita - in televisione, sui giornali, sui social - è durata poco ed è stata inutile: lo abbiamo sperimentato anche sul forum "Italians", che dà il nome a questa rubrica. "Ad aggredire quelle ragazzine sono stati bellimbusti nordafricani pieni di ormoni, sostenuti dal politicamente corretto (...). Pensano di essere i padroni a casa di altri, le donne bianche per loro sono terra di conquista", scrive un lettore. Per quanto sgradevole, l'opinione è chiara: la colpa sarebbe dei figli degli immigrati, che le famiglie non sanno educare e la legge non riesce a controllare. Chi pensa che le cose siano più complicate di così ha smesso di impegnarsi in una discussione pubblica: scuote la testa, tace, si preoccupa, auspica (nessuno auspica come un progressista). Alcuni ritengono sia sbagliato indicare la nazionalità dei responsabili: si rischia di alimentare il razzismo. C'è un problema: la gente ha occhi per vedere, orecchie per ascoltare. Digitate "risse" su Google, poi andate nella sezione "notizie": scoprirete che sono diventate un passatempo serale in ogni angolo d'Italia, e i protagonisti sono spesso ragazzi giovanissimi, cresciuti in famiglie immigrate. Se noi dei media taciamo questo, sembriamo complici; e irritiamo lettori, ascoltatori e spettatori. I quali, al momento di votare, si vendicheranno: scegliendo la destra intollerante, com'è successo negli Usa con Trump nel 2016. Diciamo quello che sappiamo, invece; affrontiamo i problemi. Ricordiamo che non esistono etnie condannate alla criminalità, come pensano idioti e razzisti. Esistono invece ambienti che favoriscono comportamenti sbagliati. Su quelli bisogna lavorare. Le sanzioni servono, ma non bastano. Ius soli, ius culturæ, ius fatevobis: inventiamo qualcosa, prima che sia tardi». Pare evidente che non si indichino soluzioni e la strada della sola repressione da sola non serve, anche se non serve neppure la cedevolezza. Eppure bisogna smontare questa rabbia e rimuoverne le ragioni. Non è accettabile questo senso sbagliato di evocazione delle proprie radici come contrapposizione alle nostre, che serve come innesco alle violenze. E' un lavoro difficile e necessario, pensando che il dramma del crollo demografico porterà inevitabilmente a nuovi flussi migratori dai Paesi più poveri del mondo. Se non si troveranno modalità di accoglienza diverse e per contro chiarezza sui diritti ed anche sui doveri di chi arriva saranno guai.