Difficile scrivere della morte. Anche se, finché uno ne scrive, evidentemente l'incontro con il sonno eterno non è ancora avvenuto, per cui si può parlarne senza apprensioni e con un pizzico di scaramanzia. Pensavo giorni fa come ognuno di noi abbia un proprio Pantheon o più prosaicamente una sorta di cimitero simile a quello poetico di di Spoon River. Avete letto questo libro? E' una straordinaria e emozionante raccolta di poesie in forma di epitaffio scritta dall'avvocato e scrittore americano Edgar Lee Masters (1868-1950) e pubblicata dal maggio del 1914 al gennaio del 1915 sul "Reedy's Mirror", un giornale di Saint Louis, in Missouri. Ogni poesia, in verso libero, è la narrazione in prima persona di un abitante del paesino immaginario di Spoon River (il nome è quello di un fiume reale di Lewistown, in Illinois, dove viveva Masters) morto e sepolto nel cimitero sulla collina. Non avendo nulla da perdere, i protagonisti raccontano la propria storia e le proprie debolezze senza veli, lasciando emergere sentimenti, passioni, vizi e virtù, rimpianti e miserie.
Più si invecchia e più si allarga il cimitero nel nostro cuore e nei nostri ricordi dei propri cari, dei propri amici, delle persone conosciute. Mi capita spesso che un pensiero, un luogo, una fotografia e tanti altri possibili stimoli mi riportino in vita persone e la vita vissuta con loro. In queste ore si incrociano due morti così diverse, che sono entrambe purtroppo due evocazioni. La prima è una storia intima. Ho già raccontato del rapporto speciale con i miei compagni di classe della Terza B del Liceo Classico "Carlo Botta" di Ivrea. Una classe piccola che ha cementato un'amicizia profonda in un mix di personalità diverse, come un coro di voci che riescono a fondersi in una rara armonia. Ci si trova ogni tanto e si torna fra i banchi come d'incanto, ma soprattutto - diavoleria tecnologica! - ci lega il filo invisibile di un gruppo Whatsapp in cui ci salutiamo ogni giorno e aggiorniamo cose degli uni e degli altri. Ieri la notizia della prima morte, anticipata da una telefonata ed è stato dato il compito a me di scrivere di Anna T. che ci ha lasciati d'improvviso. Uno choc terribile per tutti e sul gruppo ci siamo scritti del nostro sconcerto. Io ho condiviso questo: «è doloroso pensare che Anna ci abbia lasciati. I ricordi sono molti e arrivano disordinatamente alla memoria. Avremo occasione un giorno per farne assieme un puzzle, ognuno con un suo pezzettino. Era una ragazza timida e assieme sfrontata, talvolta soave e ogni tanto aggressiva, sorridente e scherzosa sino a quando l'aggrediva uno spleen che la richiudeva a riccio. Non è stata fortunata, ha spesso fatto scelte di rottura, è caduta e si è rialzata. Anna era Anna: so solo che noi mai la dimenticheremo. La piangeremo assieme e la sapremo ricordare per la gioia che ci ha dato. Il suo cuore si è fermato d'improvviso, i nostri battono all'unisono per lei. Ciao, Anna!». La morte è anche l'apparente inutilità delle parole che si trovano, il rischio delle frasi di circostanza, la meccanicità degli usi, dei costumi, dei riti, che non riempiono i vuoti e banalizzano il senso di perdita. Il giorno dopo la morte, certo molto diversa ma evocativa di una parte del mio passato, di Ciriaco De Mita, che incontrai molte volte quand'era presidente del Consiglio e poi nel lavoro comune della seconda Bicamerale per le Riforme di cui fu presidente. Era un irpino intelligente e profondo dall'eloquio complesso e ricco. Ad un amico democristiano valdostano che gli chiese di me rispose con un giudizio lusinghiero. Io, da parte mia, ho spesso - al di là del giudizio storicizzato su quegli anni - qualche rimpianto di certi uomini della Prima Repubblica com'è stato De Mita, che avevano una cultura umanistica e l'allure politica, doti oggi così rare.