E' terribile pensare alla carica di violenza che si sviluppa in una guerra, qualunque essa sia, pur nel distinguo - lo dico per l'Ucraina, a scanso di equivoci di questi tempi - fra aggressori e aggrediti. Ha ragione Bertrand Russel quando scrive: «Scoprire il sistema per giungere all'abolizione della guerra è una necessità vitale della nostra civiltà; ma nessun sistema ha alcuna probabilità di successo, fintanto che gli uomini sono così infelici da considerare lo sterminio reciproco meno orrendo della continua rassegnazione alla luce del giorno». Ma quel che è altrettanto sconvolgente in tema di violenza sono queste notizie di cronaca nera di uomini che uccidono mogli o compagne e persino - con un elenco doloroso - avvengono stragi familiari con figli che pagano la follia di un genitore.
Sembra un virus che si diffonde e crea inquietanti serialità e si manifesta spesso il dubbio di veri e propri processi imitativi che insanguinano la scena di terribili delitti. Ho seguito, senza eccessi di voyeurismo come fanno certe trasmissioni televisive che sguazzano nei dolori altrui, alcune di queste vicende. Si apre uno spaccato che lascia allibiti e crea mille interrogativi sulla banalità dell'orrore che precipita nella vita ordinaria di famiglie che i testimoni definiscono come «normali». Gli stessi assassini/e sono quasi sempre descritte come «brave persone» da vicini di casa che ottengono il loro quarto d'ora di celebrità. Qui si apre un discorso difficile, perché se la guerra diventa una follia collettiva, spesso nella storia innescata da personalità malate, anche queste vicende drammatiche ci presentano uno spaccato della follia. Nel sistema italiano la chiusura dei manicomi, scelta sacrosanta pensando a che cosa fossero, ha anche di fatto lasciati liberi - per assenza di strumenti reali di prevenzione e di cura che creino obblighi nei pazienti - un numero di "matti" (metto la parola fra virgolette per la sua carica offensiva, ma crudelmente realistica) che sono vere e proprie bombe ad orologeria. Lo scrivo come impressione soggettiva, senza alcuna competenza nel ramo della psichiatria, anche sulla base delle molte esperienze raccontate da chi ci finisce dentro per i propri cari e non sa spesso come uscire da certe situazioni di disagio e persino di pericolo. Scriveva il padre della legge 180 del 1978, lo psichiatra Franco Basaglia, che permise la chiusura dei manicomi grazie ad una sua instancabile lotta culturale e politica: «Un malato di mente entra nel manicomio come "persona" per diventare una "cosa". Il malato, prima di tutto, è una "persona" e come tale deve essere considerata e curata. Noi siamo qui per dimenticare di essere psichiatri e per ricordare di essere persone». Si dice che la legge non è mai stata applicata a pieno ed è certo che i fatti di cronaca mostrano nella loro crudezza quando questo sia vero ed è la ragione per le quali a 48 anni della sua emanazione bisogna capire quanto non ha funzionato. Troppe brutte storie si susseguono e far finta di niente e davvero una vergogna ed è un'altra vergogna che anche sul recente delitto di Samarate con un padre impazzito che decima i suoi familiari ci sia chi la butta più sul sociologico che sullo psichiatrico.