«Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre». Primo Levi La "Giornata della Memoria", come tutte le celebrazioni, rischia di essere usurata con il passare del tempo e l'affermarsi di una memoria corta che tutti constatiamo sulla Storia, se non persino sulla Cronaca. Eppure bisogna sforzarsi di tenerla viva, ricordando che cosa sia stato l'Olocausto. Nessuno può sminuire quella terribile e scientifica macchina di morte che fu prima anticipata dalla scelta di persecuzione verso gli ebrei e poi dalla "soluzione finale" dei campi di sterminio. C'è chi cita altri orrori nella storia dell'umanità non in una logica di completamento, ma per sminuirne la portata. Una sorta di benaltrismo di chi molto spesso cela una volontà di revisionismo squallido, se non purtroppo di negazionismo tout court.
E invece le parole contano quando celano nel profondo l'urlo che deriva dalla consapevolezza di quanto avvenne. La parola "Olocausto" deriva dal greco "ὁλόκαυστος" (holòkaustos, bruciato interamente), a sua volta composta da "ὅλος" (hòlos, tutto intero) e "καίω" (kàiō, brucio). Nelle antiche religioni greca ed ebraica designava il sacrificio alla divinità, in cui la vittima veniva interamente bruciata; oggi il termine nella sua crudezza brutale è stato ripreso per ricordare la sorte degli ebrei europei vittime del genocidio nazista. Meglio sarebbe però usare, per il suo significato, la parola ebraica "Shoah", presente diverse volte nella Bibbia ebraica e che significa "distruzione totale", che era poi il progetto di sterminio nazista del popolo ebraico assecondato dal fascismo durante il secondo conflitto mondiale. Meglio di "Olocausto" perché non richiama, come quest'ultimo, l'idea di un sacrificio inevitabile, come non lo deve essere l'antico male dell'antisemitismo, anch'esso praticato ad ampio spettro non solo nella storia ma ancora nel presente. Per me questa ricorrenza è un ricordo di mio padre che, internato in Germania con una quarantina di soldati valdostani, si trovò a lavorare fuori dal campo di Auschwitz (oggi di nuovo territorio polacco). Capì dopo pochi giorni dov'era capitato e quelle paure lo segnarono per sempre e, malgrado il suo carattere gioviale e scherzoso, portava in sé quel doloroso ricordo indelebile. La combinazione - che gli diede il riconoscimento di "giusto" dalla comunità ebraica di Torino - è che prima di essere deportato aveva portato ebrei in fuga dalla Valle d'Aosta verso la Svizzera, dove cercavano riparo dalle leggi razziali e dal rischio di finire nei lager nazisti. Sapevano di trovare aiuto nella casa dei miei nonni ad Aosta in via Sant'Anselmo. Per questo ho visitato Auschwitz con una carica emotiva ancora più grande ed i luoghi dovrebbero essere visitati da ogni cittadino europeo per capire la tragedia che si visse in quel campo, come negli altri campi di sterminio, vere macchine di morte con crudeltà e violenze. Per questo portai i miei figli adolescenti, considerandola una specie di vaccino contro le dittature che hanno segnato il Novecento e che ancora imprigionano cittadini di molti Paesi. La memoria è essenziale, come dice la frase iniziale di Primo Levi che, arrestato al Col de Joux in Valle d'Aosta quand'era partigiano in erba, iniziò da qui la deportazione. La sua prigionia ha sortito uno dei racconti più veri e dolorosi sulla Shoah.