Cinquant'anni fa Paolo Villaggio pubblicava il primo romanzo dedicato al ragionier Ugo Fantozzi, personaggio cult della mia giovinezza e ritratto di una società italiana a cavallo fra la fine degli anni Sessanta e Settanta. Per un caso, qualche giorno fa, un amico osservava come l'aggettivo "fantozziano" risulti ormai per le giovani generazioni di difficile comprensione. A meno che, com'è capitato ai miei figli, non siano stati costretti dal genitore a vedere i film in tema di Paolo Villaggio, scrittore e poi attore geniale della sua medesima creatura letteraria. Io Fantozzi l'ho molto amato e con Fracchia, l'altra maschera di Villaggio, facevano parte del mio repertorio adolescenziale, quando quelle gag e il loro linguaggio permeavano il nostro slang giovanile, che riemerge nelle rimpatriate di coscritti e compagni di scuola. Ma ormai fa molto âgé...
Ha scritto con la sua prosa immaginifica Gabriele Romagnoli su "La Repubblica": «La nostalgia è una trappola. Rende indulgenti perché sopravvissuti. Nello specchietto retrovisore gli oggetti appaiono non soltanto più lontani, ma anche più belli, avvolti nella luce dorata del passatismo. Si perdona tutto e si travisa molto. L'Italia di Fantozzi non esiste ormai più. La partita alla radio è il feticcio di una generazione agli sgoccioli. Così come lo sono il "cine club" o la gita aziendale. Un ventenne che leggesse i notevoli libri di Paolo Villaggio o ne guardasse le trasposizioni cinematografiche avrebbe bisogno di note o didascalie per comprendere l'epoca e il senso. Chi c'era ora ed allora vive lo spaesamento di un arco temporale in cui, al di fuori di ogni previsione, Ugo Fantozzi ha preso il potere e perduto la forza. Si è fatto regola e non più eccezione. Lo disse il suo stesso creatore, sei anni fa: "Fantozzi lo sono diventati il 99 per cento degli italiani". L'uno mancante lo ha aggiunto la sindaca di Roma, Virginia Raggi, dicendo che: "C'è un pezzo di lui in ognuno di noi"». La Raggi, se Fantozzi risorgesse, sarebbe vittima - tra rifiuti che debordano, burocrazia capitolina tragica, cinghiali in libertà, buche nelle strade - del suo terribile livore e della cattiveria dei frustrati, che poi in realtà hanno pure in molti casi le loro buone ragioni. Villaggio aveva interpretato certi sentimenti post Sessantotto che restano attuali se penso che, nella piccola Valle d'Aosta, abbiamo ancora potenti influencer della politica locale rimasti fermi ad allora. Ma Romagnoli, genialmente, ricolloca in epoca contemporanea il nostro eroe sul Web: «Quando si alzava nella saletta del cineforum per proclamare che "la corazzata Potemkin è una cagata pazzesca!" compiva un atto liberatorio in nome e per conto non di quella triste maggioranza silenziosa e asservita, ma di sé medesimo. Per farsi sentire aveva bisogno di gridare: era molto meno dell'uno per cento e non aspirava veramente all'aggregazione con il 99 per cento o non avrebbe ferocemente auto-sabotato ogni tentativo. Il suo era un gesto di rottura, veniva allo scoperto, sfregiava controsole il pensiero unico dominante. Il suo discendente se ne sta al riparo. Digita parole di fuoco usando pseudonimi. Attacca la Boldrini o la Meloni a distanza, come fossero personaggi di un fumetto, non esponendosi, non affrontando alcuna platea, alcun nemico. Non fa pugilato, fa wrestling. Quanto agli obiettivi, non ci si faccia ingannare dall'assalto al politicamente corretto. Quello e il suo contrario sono due poli di un sistema maggioritario. Non c'è audacia né sprezzatura. Sono pulsioni derivate, rischiano il vezzo. Sparare alla "corazzata Potemkin" è diventato come farlo alla Croce rossa: così fan tanti, illudendosi di uscire dalla piccineria inquadrando bersagli grossi. L'ultimo della fila pubblica un post contro il Papa. Intanto la signorina Silvani raccoglie seguaci su "Instagram" dove posta foto delle sue gambe in collant rilanciati da account di "splendide milf" e il collega Filini organizza petizioni on line: non raduna nessuno, non fa incontrare nessuno, non ottiene niente, ma si dà un gran daffare e non ha un minuto libero per giocare a "padel" (il tennis lo guarda in televisione)». Insomma: Fantozzi è morto con la sua epoca, di cui è diventato uno dei simboli per i sociologi del futuro, ma Fantozzi è poi rinato - chissà con quale nickname - come leone da tastiera, senza più una vera, goffa e imbarazzante socialità. Vive sulla Rete fiero dei suoi post e a caccia di "like", discettando di tutto e di tutti, caricatura dell'eterno sconfitto che ispira sentimenti contrastanti, più agri che dolci.