Il consumo televisivo è cambiato. Chi ha vissuto da bambino il lungo cammino verso le attuali tecnologie non può che stupirsi di come il nuovo focolare domestico sia diventato da "scatolone con il sedere catodico" in "sottile prodigio digitale". La televisione generalista da un solo canale si è dilatata a dismisura e poi ha cominciato ad essere un dispenser di prodotti da comperare. Oggi ho l'antenna e pure la parabola sul tetto, ma in realtà tutto viaggia ormai sulla fibra ottica. Ho le app della televisione sul telefono, sul tablet e dunque è diventata mobile. Ma resta, come dicevo, un elettrodomestico su cui ruota una parte della nostra vita e di certo il suo potere ipnotico tende ormai a scemare se la nostra capacità di scelta cresce con il crescere di un'offerta enorme. Siamo meno passivi e più attivi, altro che il telecomando! Forse ci lasciamo meno rincitrullire e lo dimostra il sostanziale flop del "Festival di Sanremo" in versione pandemica, che ha dimostrato come operazioni a freddo non funzionino.
Eppure ogni tanto ci si casca lo stesso nell'affezione e ci pensavo ieri assistendo all'ultima puntata di "MasterChef Italia", la trasmissione giunta alla decima edizione e partita come ricopiatura di un talent show inglese che ha avuto diverse versioni in molti Paesi del mondo. Il trio di chef di questa edizione era stato così descritto da Aldo Grasso, critico televisivo del "Corriere della Sera": «Antonino Canavacciuolo, Bruno Barbieri, Giorgio Locatelli sono chef stellati (la cui presenza televisiva, pubblicità compresa, sta diventando, per loro, un'interessante fonte di reddito) e, anche quando ospitano loro colleghi, ci tengono a inserirli nel firmamento "Michelin" (è dunque la guida più prestigiosa o è solo una forma di "captatio benevolentiæ"?)». Così lo stesso autore: «Fra tutti i programmi culinari che la televisione propone (sono tantissimi, segno che siamo passati dal cibo come nutrimento al cibo come linguaggio), "MasterChef" è il più bello, il più attraente, il più vivace. La specialità della casa è la severità: finalmente qualcuno che ha il coraggio di essere rigoroso, esigente, inflessibile, come il magistrale Anton Ego, il critico enogastronomico di "Ratatouille". I poveri di spirito confondono la severità con la cattiveria e così s'imbrogliano, preparano piatti di rara modestia, senza un briciolo di fantasia e di competenza». E poi: «Sembrerà paradossale, ma la cucina è solo un pretesto: la vera forza di "Masterchef" è nella sua attenta costruzione, nella meticolosa miscela di tutti gli "ingredienti" narrativi. Le storie di un gruppo di personaggi, che da perfetti sconosciuti diventano persone per cui (e con cui) soffriamo, aspettando il verdetto delle prove. La perizia del montaggio, che miscela la frenesia delle gare con le riflessioni dei "confessionali", e ci fa dimenticare che, a differenza di altri talent, qui tutto si è già compiuto e non possiamo intervenire». Chissà! Fatto sta che l'ho seguito ieri sera con questo meccanismo di crescita della suspense sino all'epilogo con la vittoria di Francesco Aquila. La chiosa è esemplificativa nello svelare un meccanismo ed è sempre Aldo Grasso: «Forse "MasterChef" è la causa della deriva instagrammatica che ci prende al ristorante, quando fotografiamo i piatti (il senso della vista sta superando quello del gusto, ci sarà un perché!)». Chi non lo ha mai fatto?