Leggo sempre volentieri Susanna Tamaro, una scrittrice che non nasconde la sua fede profonda e che ha una scrittura sempre pensosa ed avvolgente. Mi ha incuriosito un suo articolo lungo e approfondito pubblicato sul "Corriere della Sera" in cui descrive un tema su cui io stesso avevo riflettuto. La mia premessa è facile: viviamo in una Valle dove ogni paese ed ogni villaggio ha nelle chiese, grandi e piccole, un segno architettonico importante. Nei miei viaggi ho visitato ogni sorta di edificio religioso, non solo perché espressione tangibile della diversità culturale e anche di ingegno umano, ma perché espressione profonda di comunità e del loro desiderio di esprimere fisicamente lo slancio verso il trascendente.
Dopo una premessa su questi mesi di tribolazione, Tamaro entra nel vivo: «In questi anni ho viaggiato molto per l'Italia e molte volte, nell'imbattermi nella pletora di orribili chiese moderne edificate nel dopoguerra, mi è capitato di domandarmi: sarebbe mai possibile che qualcuno si convertisse qui dentro o, per lo meno, che venisse sfiorato dall'idea che, dietro il mondo materiale, ne esista un altro la cui concretezza si manifesta nel mistero della bellezza? Chi ha deciso, progettato e finanziato questi abomini architettonici si è mai domandato se avesse voluto sposarsi, assistere a un battesimo o celebrare il funerale di una persona cara in un luogo del genere? L'orrore che provo non è però un orrore intellettuale, ma un orrore che ferisce direttamente il cuore perché il brutto, il disarmonico e lo sgradevole sono la negazione stessa del trascendente». Cita poi un libro, che ovviamente leggerò, "Disegnare il sacro", «un piccolo ma importante libro di Christiano Sacha Fornaciari, edizioni Lindau. L'autore è specializzato in architettura ed arte per la liturgia, ma non è un libro per specialisti quanto piuttosto un conforto per le anime profondamente turbate, come me, dal proliferare incontrollato di tanta architettonica sciatteria». Prosegue poi la scrittrice: «Una decina di anni fa, tormentata da questo rovello, ho chiesto a un importante cardinale con il quale mi trovavo a cena quali fossero le ragioni di questa abominevole deriva che, in un Paese come il nostro, fa particolarmente male data l'enorme quantità - dalle pievi, alle cappelle, alle cattedrali - di meravigliose chiese edificate nel corso della storia. Si è trattato, mi spiegò, di una tendenza nata negli anni Sessanta con il boom economico, con l'edificazione di nuovi quartieri. Si era pensato che, dato che l'uomo moderno passava il suo tempo tra fabbriche, garage e brutti edifici tirati su in fretta e furia, bisognava creare delle chiese che fossero simili al mondo che li circondava, in modo che si potessero sentire a casa, senza considerare che questi luoghi non avrebbero potuto suscitare altro che un progressivo allontanamento dalle realtà che si presentavano complementari all'orizzontalità del mondo. Se si vive circondati dalla bruttezza ovunque, per quale ragione si deve trovare il brutto nel luogo che, per antonomasia, dovrebbe parlarci della bellezza?». Tesi suggestiva, ma non so davvero sino a quanto veritiera. Tamaro descrive poi il suo smarrimento, che riguarda il fatto di come le chiese del passato fossero anche studiare per il riverbero della voce del celebrante e anche per avere un'acustica per musica e canti a favore del piacere e del raccoglimento del fedele: «Ed ora? A quale dimensione ci conduce la musica di queste chiese moderne? A quella dello scoramento: voci per lo più incolte che cantano, seppur con fervore, come se partecipassero a una scampagnata, vivaci orchestrine giovanili con tanto di chitarre e batteria che si spengono subito dopo, senza lasciare traccia nell'animo di chi ha assistito alla funzione, se non, forse, una forma di epidermica allegria. La dimensione della fraternità è sicuramente importante, ma quando quella trascendente si lega unicamente a questo, alla prima crisi, al primo impatto con l'asperità della vita, la fede che si credeva di possedere si dissolve come neve al sole. I bambini che trascorrono anni rispondendo a quiz religiosi durante le lezioni di catechismo, da adolescenti abbandonano ogni pratica spirituale, convinti che la cosa non li riguardi più: il mondo offre realtà ben più allettanti. La solitudine in cui ci troviamo a vivere è la solitudine dell'abbandono del sacro perché, paradossalmente, la fede nell'Incarnazione non è più in grado di accompagnarci in una dimensione che ci apra all'interrogazione e ci spinga a trovare delle risposte all'inquietudine che, ontologicamente, ci appartiene. Frastornati dalle immagini, sballottati in un mondo che ignora le ragioni profonde dell'esistere, tanto più in un momento grave come questo, com'è possibile riconquistare la stabilità profonda che ci giunge dalla contemplazione del mistero? Dio ti ama anche se canti male, anche se celebri il divino in un'asettica sala da conferenze, anche se lo spazio in cui ti rechi alla ricerca di un sollievo per la tua anima ti parla solo di opprimente e sciatta bruttezza. Che Dio ti ama comunque è teologicamente vero, ma è altrettanto vero che la radice del sacro, per consentire di crescere in questa dimensione, ha una necessità estrema di bellezza, perché solo la bellezza, con le sue profonde vibrazioni, fa risuonare in noi la parte più profonda del mistero. Senza questa dimensione, il cristianesimo si trasforma in uno sforzo intellettuale di buona volontà e partorisce un mondo che, anziché essere segnato dalla gioia liberante della fede, propaga intorno a sé per lo più un asfittico moralismo». La sua severità sale ancora di tono nell'ultimo brano che citerò dell'articolo: «Moralismo che, come ci ha ricordato di recente papa Francesco, è in qualche modo la tomba della vera fede. La fuga in massa verso altre religioni o verso la pletora di sette protestanti ci parla proprio di questo: della necessità di trovarsi in luoghi dove il corpo, nella sua concretezza, percepisca l'esistenza del sacro. I cubici ecomostri, le astronavi, le vele cementizie, i campanili siderurgici che, come un malefico cancro, ormai popolano il nostro Paese umiliando, con la loro aggressiva bruttezza, non solo i credenti ma chiunque vi passi anche casualmente accanto, ci parlano della cecità spirituale dei progettisti e dell'ancora più grave cecità dei committenti. E' la natura, con le sue forme armoniose, a suscitare in noi lo stupore che ci porta alle soglie del sacro, e la natura non contempla mai la rigidità geometrica che ci viene riproposta in questi moderni manufatti. Se geometria c'è, se matematica c'è - e ce n'è molta, in natura - è sempre sotto il segno dell'armonia». A ben pensarci, guardando l'armonia di certi nostri paesi di montagna o di borghi di fondovalle, questo discorso ho l'impressione che non valga solo per le chiese.