Mi sono sempre riconosciuto in una frase di Hermann Hesse: «Col passare degli anni mi sono sentito ineluttabilmente spinto ad apprezzare maggiormente ciò che unisce uomini e nazioni piuttosto che ciò che li divide». Per questa ragione, pur considerandomi un nazionalista valdostano, mi identifico nel termine "cosmopolitismo", parola cara ai miei amati illuministi settecenteschi, che deriva dal greco "kósmos, mondo" e "polìtes, cittadino", si definisce dunque cosmopolita chi si considera "cittadino del mondo", cioè appartenente a quell'unica grande patria che è l'umanità intera, indipendentemente dalla nazionalità di appartenenza. Non appaia una contraddizione, perché può esistere un profondo senso di appartenenza mai posto contro qualcun altro.
Ecco perché spiace che tornino le frontiere, anzi che ne nascano di nuove. Questa è l'evidente constatazione. Già si erano irrigidite per via dei flussi migratori con il misto fra l'apertura del "Trattato di Shengen" che aveva reso più aperta l'Europa e la chiusura del "Trattato di Dublino" sui migranti che "fissa" chi arriva laddove approda. Ma poi è arrivato lui, il coronavirus, che ha creato frontiere sanitarie e come tali via via più chiuse. Ma questo non vale solo per l'Europa, ma per il mondo intero con il sistema globale dei voli aerei ridotto al lumicino. Le frontiere, o se preferite i confini, sono nate e si sviluppano anche fra le Regioni italiane ed è come tornare un pochino a prima dell'Unità d'Italia e questo avviene per limitare gli spostamenti e dunque limitare i contagi. Sono nate persino frontiere interne alle stesse Regioni con "zone rosse" che hanno riguardato territori comunali con posti di blocco agli ingressi. Ma non ci sono solo frontiere fisiche ma anche mentali, che restano le peggiori perché si fissano nella nostra testa. Sono i soliti pregiudizi, le arretratezze culturali, le incomprensioni ereditate e tutto quel si erge ad ostacoli nella comprensione degli altri, basata per funzionare sul rispetto reciproco e sulla vicendevole considerazione. Ora queste a queste varie frontiere si sono aggiunti comportamenti e "tic" conseguenze del coronavirus e della sua diffusione, che ha cascami evidenti anche nella nostra psicologia umana. Siamo diventati non solo prudenti, com'è sacrosanto che sia, ma si aggiunge il rischio della sospettosità e della diffidenza. Una sorta di barriera nei rapporti umani che va al di là di mascherine, distanziamento, plexiglas, code ordinate e contatti fisici banditi. L'altro, per dirlo con la vecchia espressione che arriva dal passato remoto, è un potenziale "barbaro", che deriva dal greco "bárbaros" e corrisponde al latino "balbus, balbuziente" ed indicava lo straniero come colui che parla una lingua incomprensibile, che balbetta sillabe senza senso. Oggi rischiamo di vedere così i nostri simili, quando cogliamo in loro una minaccia possibile. Esiste un perimetro comprensibile e logico, ma capita di incrociare uno sconosciuto per strada e cogliere negli sguardi reciproci, che spuntano dalla mascherina, un'ombra nuova, che è come una frontiera.