Utilizziamo i cookie per personalizzare i contenuti e analizzare il nostro traffico. Si prega di decidere se si è disposti ad accettare i cookie dal nostro sito Web.
04 ago 2020

Muoversi, afflato di libertà

di Luciano Caveri

Da oggi stacco la spina per qualche giorno, anche se non mancherò l'appuntamento con la scrittura quotidiana. Ho sempre ritenuto la sosta dal proprio lavoro e l'allontanamento dalla routine come un momento indispensabile nel flusso della nostra vita. Il saggio Bertrand Russell scrisse: «Se fossi un medico, prescriverei una vacanza a tutti i pazienti che considerano importante il loro lavoro». So bene come quest'anno lo scenario su cui si affaccia agosto sia del tutto diverso dal solito e molti in vacanza neppure ci andranno, e non per scelta. Ci troviamo nella rara circostanza di essere in una terra di mezzo nel cuore di un anno memorabile, anche se, come in un paradosso linguistico, sarebbe da dimenticare.

Lo sarebbe perché abbiamo vissuto mesi ai quali non eravamo preparati ed invece siamo stati travolti dall'ignoto senza averlo cercato. Leggevamo nel periodo natalizio di questa remota epidemia in Cina e poi d'improvviso ce la siamo trovata sull'uscio di casa a bussare alle nostre porte. Ci è voluto poco a trovarsi con una esistenza blindata con la paura di ammalarsi e con la triste lista di persone conosciute scomparse per colpa del virus. La Morte resta una compagna ingombrante, specie quando colpisce, com'è avvenuto, in un quadro collettivo di paure, che ci ha costretti ad abitudini nuove e al venir meno a elementi elementari di socialità e di affetto. In più, per via del lavoro, ho per mesi costruito trasmissioni radio settimanali d'approfondimento in cui raccontare la malattia e questo non ha certo giovato. Esiste ancora oggi quel senso di pesantezza derivato dal timore incombente misto a quei cambiamenti improvvisi di una vita militarizzata anche nei suoi aspetti più elementari. L'autocertificazione negli spostamenti è parsa l'immagine tristemente più efficace di un incubo orwelliano. Ora Il "covid-19" sembra lontano, ma sappiamo come la pandemia incomba altrove e certa fatica di questi tempi deriva proprio da questa indeterminatezza di ondate che colpiscono ora qui e ora là. Personalmente sono intriso di fiducia nella Scienza, ma leggo cose talmente contraddittorie da essermi fatto l'opinione che troppi meccanismi ci sfuggano ancora e questo non è molto rassicurante. Certo è che questo 2020 resterà scolpito come trauma e ci pensavo ieri partendo per un breve viaggio, trovandomi in un aeroporto di Caselle deserto da far paura e su di un'aereo, seduto sul sedile assegnato, con mascherina sul viso, guardando con sospetto, per altro reciproco, chi sedeva attorno a me. Sarà così per i prossimi giorni in una vacanza fuori ordinanza con gesti e comportamenti calcolati che riguarderanno me e gli altri che incontrerò. Una dimensione nuova, che speriamo possa finire e che incombe ormai senza alternativa su questa estate. Ma bisogna sempre pesare i pro e i contro e sul rapporto fra individuale e collettivo ha scritto acutamente lo psicanalista Massimo Recalcati: «Siamo di fronte ad un trauma collettivo. Nessuna difesa era possibile. L'evento che ci ha travolti - come avviene in ogni trauma - è stato un evento inatteso, imprevedibile, ingovernabile. Ci ha fatto sentire tutti inermi. Ma questo trauma non si può sconfiggere se non insieme. Il virus segna la morte definitiva dell'ideologia individualista. La libertà non è una proprietà individuale. Nessuno si salva da solo. La libertà nella sua cifra più alta è solidarietà. Questa è la lezione traumatica di questo virus». Ma muoversi, anche senza mete lontane perché impossibile, suona come un afflato di libertà.