Vorrei proporre tre visioni del rischio di essere dipendente ("addict") dagli smartphone che abbiamo in mano e ormai il controllo del tempo di utilizzo dimostra con chiarezza i rischi di di una dipendenza dal Web, detta "Iad - Internet addiction desorder" Lo scrittore e insegnante Alessandro D'Avenia osserva sulla prima del "Corriere della Sera": «"Metti via quel telefono!". E' ormai la stanca litania che ripetiamo ogni giorno ai nostri figli per tentare di recuperarne la presenza: a casa, a tavola, in mezzo agli altri. La risposta, come a giustificare i loro occhi ipnotizzati dallo schermo, è quasi sempre la stessa: "Mi annoio". E hanno ragione, oggi più che mai».
«La costante stimolazione di cui sono capaci telefoni e tablet, infatti, attiva continuamente i meccanismi di ricompensa del cervello - prosegue Davenia - Spento lo schermo il bambino o l'adolescente precipita in un mondo le cui sollecitazioni appaiono pallide rispetto agli "effetti speciali" digitali, motivo per cui la soglia di percezione della noia è molto più bassa rispetto a chi è cresciuto senza dispositivi elettronici. E' un tipo di noia nuovo, con cui chi educa deve fare i conti. Una noia "artificiale", molto diversa da quella "naturale" che da sempre conduce i bambini a trasformare le cose che cadono sotto i cinque sensi in un viaggio di esplorazione e scoperta del nuovo: scoprire significa letteralmente togliere il coperchio alle cose ed è spesso la noia la molla per farlo. Ricordo ancora i pomeriggi in cui, per combatterla, mescolavo pericolosi intrugli improvvisandomi piccolo chimico o sfogliavo le pagine di "Conoscere" a caccia di storie e invenzioni altrui. La ricerca di senso riusciva così a "illuminare" le cose, permettendo loro di uscire dal buio e dalla piattezza. Faceva saltare i coperchi. Oggi però il nuovo non è più sotto il coperchio, ma in superficie: le superfici luminose che ci abbagliano con le loro immagini sfavillanti, rendendoci passivamente soddisfatti. I dispositivi digitali creano dipendenza perché ci gratificano subito e sempre, diversamente dalla gioia duratura di un'attività impegnativa, che si confronta "fisicamente" con la resistenza di quella che infatti chiamiamo "la dura realtà"». Mii fermo qui e passo a Claudio Giuia giornalista e "digital strategy advisor Gedi" che così si esprime su l"HuffPost": «Poche ore dopo la strage della sinagoga di Pittsburgh, tre cronisti del "New York Times" sono andati a verificare quante persone avessero postato su "Instagram" agganciandosi all'hashtag #jewsdid911, che sintetizza la vetusta "fake news" sugli ebrei responsabili dell'attacco alle Twin Towers. Erano già quasi dodicimila. Ricordato che con "hashtag" si definisce la parola o l'accrocco di parole dietro i quali si raggruppano - in una comunità digitale - quanti si stanno esprimendo su un tema (il "topic"), mi preoccupa il fatto che "Instagram" sia di gran lunga il "social" più usato dai ragazzi americani ed europei. Dunque anche loro prendono per buone e diffondono le più strampalate e pericolose falsità messe in circolo da menti e manine criminali. E poiché nell'universo della comunicazione interpersonale digitale l'estremismo urlato sale di livello quando uno dei tanti che se ne abbeverano diventa protagonista di fatti drammatici, un altro hashtag molto frequentato dopo l'attentato a opera del suprematista trumpiano Robert Bowers è risultato essere #88, abbreviazione del saluto nazista "Heil Hitler" per la doppia iniziale H, ottava lettera dell'alfabeto. I "social" sono dunque il porto franco dell'hate speech, ossia dell'aggressione verbale e dell'insulto all'indirizzo dell'altro? In parte sì, e la responsabilità è dei loro gestori, che finora hanno garantito la totale impunità a chi alimenta l'odio, contando sui ritardi normativi di stati e sovrastati come l'Unione europea». Chiudo con Christian Rocca, giornalista, scrittore e blogger, da "La Stampa": «Dicono che collegare l'Italia all'Europa con treni ad Alta velocità sia dannoso per Torino e per il Paese, che costruire il gasdotto trans-Adriatico pure, salvo pagamento di inesistenti penali, e anche che con la legge di bilancio sarà finalmente abolita la povertà. Nell'epoca della diffusione delle "fake news", il compito della stampa non può essere quello di riportare asetticamente dichiarazioni palesemente false. Il dovere civile dei media è quello di dire chiaramente che si tratta di bugie. In questo scorcio di secolo caratterizzato dall'attacco alle fondamenta della democrazia liberale, il sistema dell'informazione non può limitarsi a lottizzare gli spazi a favore di chiunque senta l'urgenza di dire qualcosa, qualunque cosa. Questa non è imparzialità, questa è capitolazione: quando le cose non sono vere, bisogna dire che non sono vere, anche per guadagnarsi il rispetto dei lettori. Come ha magnificamente sintetizzato un professore dell'Università di Sheffield, "se qualcuno dice che piove e un'altra persona dice che non piove, il compito di un giornalista non è quello di citarli entrambi. Il compito del giornalista è quello di aprire la finestra, guardare fuori e dire qual è la verità". Il rapporto conflittuale tra politica e stampa, tra potere esecutivo e quarto potere, non è una novità di questa stagione, o del nostro Paese, ma questa volta assistiamo alle gesta di un partito di maggioranza relativa che minaccia e invita a boicottare alcuni organi di stampa perché non si bevono tutte le panzane, alle prodezze di un sottosegretario che difende la libertà di diffondere "fake news" sulla rete e promette di cancellare i finanziamenti pubblici ai giornali, nonostante, altra bugia, siano stati già aboliti molti anni fa (e rimasti in minima parte soltanto per le cooperative)». Scusate se oggi approfitto di citazioni altrui e prendendo solo una parte del ragionamento dei tre autori, ma serve solo per capire come questo rapporto con i nuovi media digitali è diventato un problema serio di democrazia e di misura nell'uso e nell'abuso. Chi si distrae rischia di trovarsi in un mondo pericolosamente a rovescio.