E' difficile leggere la realtà attuale e capirne a fondo le ragioni, anche perché non sempre in quel che avviene c'è una logica. Personalmente mi sento in contrasto con me stesso, quando nei miei pensieri oscillo fra le prevalenti gioie della mia vita più intima e familiare e le dominanti preoccupazioni per quel che capita nelle Istituzioni e nell'agone politico, intesi come meccanismi di snodo della democrazia. Una mia situazione bipolare, in alto e in basso, che mi costringe ad avere due volti a seconda dei momenti. Il me stesso "pubblico" tende sempre di più a chiedersi se valga la pena di impegnarsi come ho sempre fatto, ritenendo la politica non solo una legittima passione ma anche un dovere civico. Ma il cumulo di timori e anche qualche delusione, oltreché un vago senso di inutilità di ogni impegno politico, ti portano a chiederti se lo si debba continuare a fare o finisca per essere uno spreco di tempo - e questo si sa che è limitato - in un'epoca difficile da capire in cui la mediocrità e persino l'ignoranza sembrano affermarsi.
Trovo, nella casualità delle letture quotidiane consentite oggi dal rovistare sul Web, un articolo sul "Sole - 24Ore" del giornalista e saggista Armando Torno in tema di libri come spunto per una brillante intuizione. Ne ricorda uno che cercherò, che così viene presentato: «Forse vi ricorderete di un libro del sociologo Helmut Schoeck dal titolo "L'invidia e la società". Lo tradusse Edilio Rusconi nel 1974 e lo ha ripubblicato Liberilibri nel 2006. Questo saggio, detto in soldoni, desiderava portare l'attenzione sui sentimenti acrimoniosi che governano la società. Li considerava un meccanismo superiore alla lotta di classe, cara al comunismo, particolarmente attivo negli anni '70». Più avanti cita un secondo libro, che invece ho letto anni fa: «Schoeck non arrivava alla conclusione di Bertrand Russell, quella che si legge in un suo lieve saggio dal titolo "La conquista della felicità". Scriveva il filosofo, nato in una famiglia dell'aristocrazia inglese: "L'invidia è la base della democrazia". E' il caso di aggiungere che diventa tale quando gli spazi del governo del popolo si restringono o si svuotano di riferimenti forti. Un po' quel che sta accadendo in Europa; forse anche in Italia, aggiungerà qualcuno. Di certo si può dire che oggi senza l'invidia non sono spiegabili molti scenari politici. Vedremo cosa potrà succedere man mano la sua presenza si farà ancor più invadente. Forse è collegata alla stupidità; anzi, quest'ultima potrebbe diventarne il principale propellente. Così, almeno, sembrò credere il poeta latino Giovenale nelle "Satire". In genere, e alcune pagine di Schoeck aiutano a comprendere il fenomeno, l'invidia giunta al potere avverte il bisogno di punire. Non perché il castigo serva a consolidare la società, ma per un'abitudine ormai consolidatasi nella storia. Le rivoluzioni possono spargere il sangue soltanto facendo leva sull'invidia che abbonda in taluni momenti. I privilegi si sono in genere aboliti punendo con la violenza, non ragionando». Ecco poi il cuore del ragionamento non semplice, naturalmente, per cui potrebbe essere esso stesso oggetto di invidia, in un'epoca in cui la cultura sembra essere qualche cosa di cui scusarsi nel nome della "popolarità", che significa sforzarsi di essere "piacioni" e volare basso come vanteria: «E' una storia infinita, non è il caso di raccontarla al dettaglio: basta guardare quel che sta succedendo per capire. E se si desidera comprendere meglio il fenomeno della punizione, allora si può leggere il saggio di Didier Fassin (antropologo che insegna a Princeton) dal titolo "Punire. Una passione contemporanea" (Feltrinelli). Tutti siamo convinti che il crimine sia il problema da affrontare e il castigo stabilito dallo Stato, una soluzione. Tuttavia, se la punizione si carica d'invidia, quel che si chiama il "momento punitivo" potrebbe trasformarsi nel vero problema. Le società rischiano di diventare sempre più repressive. Le prigioni si apriranno facilmente, i diritti non saranno più tali e chiunque potrà essere colpito da sanzioni slegate da norme che si credevano codificate dalla civiltà. Didier intende la punizione come una nuova tecnologia. E alla fine si smarrisce, grazie all'invidia che acceca, la ragione per cui si ricorre a essa. Il dialogo tra la filosofia morale e le teorie del diritto, che aveva ispirato Cesare Beccaria e i riformatori ormai letti da quasi nessuno, sul quale le attuali democrazie dichiarano di fondarsi, vive un brutto momento. Anzi, aumentando le punizioni si trasformerà in un colloquio tra sordi». Bella profezia in questo mondo in cui - posso testimoniarlo personalmente - nella soluzione di dossier delicati ci sono riunioni surreali in cui molti ascoltano solo sé stessi e spengono le loro orecchie, quando dovrebbero ascoltare le ragioni diverse degli altri.