Il francese e la Valle d'Aosta: un tema delicato che bisogna affrontare in modo laico e non ideologico. Questa lingua storica dei valdostani appare - e non mi infilo in rilevamenti statistici o d'opinione - in evidente crisi, ma resto convinto che si tratti di una ricchezza storica e culturale che sarebbe folle disperdere nel nome di chissà quale modernismo. Serve l'inglese? Certamente sì ed è bene inserirlo il più possibile nei percorsi scolastici e formativi, ma sia chiaro che questo non deve obbligatoriamente significare abbandonare il francese e non sforzarsi, in parallelo, nella valorizzazione del francoprovenzale. Non c'è nulla di male - perché i tabù non devono esistere - a riflettere sul nostro bilinguismo istituzionale, sancito con chiarezza dallo Statuto, che riconosce pure il particolarismo linguistico dei walser e c'è infine - a definire il quadro giuridico di riferimento - una legge dello Stato che prevede anche la tutela del patois.
Ma sia chiaro che la francofonia resta una finestra sul mondo e l'opportunità di far parte di una comunità vasta e multiforme. E' un ponte verso culture che impiegano il francese in modi diversi e si tratta di un'opportunità in più per una piccola comunità come la nostra. Ci pensavo con preoccupazione, dopo che mi è stato riferito che nel recente "Sommet de la Francophonie" in Armenia la nostra Valle non figurava più nella carta geografica che evidenzia i territori francofoni. Pare che io sia stato l'ultimo presidente di Regione a partecipare ad un "Sommet", quello di Bucarest in Romania nel settembre del 2006, quando la nostra Valle aveva ancora lo status di "invité spécial", che ci consentiva una presenza importante ma limitata, nel quadro della "OIF - Organisation internationale de la Francophonie". Lo Statuto della Francofonia consente, infatti, la vera e propria adesione solo agli Stati e noi - ça va sans dire - non siamo uno Stato. Non sarebbe stato impossibile, come avviene per il Canada verso il Québec, che l'Italia aderisse alla francofonia, consentendo alla Valle d'Aosta, in ossequio al principio del bilinguismo perfetto del nostro Statuto d'Autonomia, di partecipare al "Sommet" a pieno titolo, entrando dalla porta e non dalla finestra. Un giorno il presidente Romano Prodi, a fronte di una mia qual certa insistenza sul tema, mi chiese: «Ma alla fine questa francofonia cos'è? Una specie di Commonwealth?». Spiegai a Prodi, non ottenendo alla fine soddisfazione di un impegno italiano nella francofonia (e lo stesso è valso, purtroppo, per gli altri presidenti del Consiglio), che la francofonia era una "rete" che poteva essere interessante ed utile anche per l'Italia: un'entratura in più grazie alla Valle d'Aosta. Ma ora pare non solo non esserci la porta, ma neppure più la finestra! Il mio è sempre stato un percorso piuttosto particolare rispetto alla Francofonia. Cito alla rinfusa: sono stato, quando ero alla Camera, presidente del Gruppo di amicizia fra il Parlamento francese e quello italiano, trattando ovviamente negli incontri questo argomento della nostra appartenenza ai Paesi che praticano il francese, che interessava i valdostani nel quadro più ampio dei rapporti fra i due Paesi. Poi al Parlamento europeo, oltre ad usare il francese - ad esempio nel mio ruolo di presidente della Commissione Trasporti e Politiche regionali per presiedere le sedute - ho guidato il gruppo dei deputati europei francofoni che si riuniva a Bruxelles ed a Strasburgo. Analogo impegno per la francofonia, dal 2003 al 2013, ho messo nel mio ruolo di membro del "Comitato delle Regioni" e devo dire che, anche quando ero presidente della Delegazione italiana, nessuno si è mai imbarazzato che spesso mi esprimessi in francese. La stessa cosa è accaduta al "Consiglio d'Europa" dove ognuno parla la lingua che vuole. Da presidente della Regione ho spesso incontrato esponenti della già citata "Oif": in particolare nel 2006 l'allora secrétaire général Abdou Diouf. Nelle stesse ore a Parigi incontrai i conseillers diplomatiques del Presidente Jacques Chirac et del premier ministre del tempo Dominique de Villepin per sottoporre loro un dossier sulla partecipazione al "Sommet" per rafforzare quello status già ricordato di "invité spécial". «La francophonie est un mode de pensée et d'action» diceva Léopold Sédar Senghor con intelligenza ed acume. Io trovo, dunque, che non si debba perdere questo réseau di "politica estera", che offre spunti e opportunità cui sarebbe illogico e miope rinunciare.