Pur di avere il motorino a quattordici anni avrei fatto carte false. Quell'oggetto del desiderio era per me anzitutto la Libertà: uso persino la maiuscola per dire che la mobilità - termine all'epoca inesistente - significava per un ragazzino di paese come me potersi muovere finalmente sdoganato da treno, pullman ed autostop. Era anche - bisogna dirsi la verità - una specie di rito di passaggio verso l'età più adulta, anche per sedare l'ormone vivace, perché la moto all'epoca voleva anche dire uno status symbol e la speranza di caricare qualcuna sul sellino... In più, pur essendomi da deputato battuto per l'obbligatorietà del casco, ho nostalgia di quel vento nei capelli e di quelle comitive di motorini che, specie durante le vacanze estive, come un nugolo d'insetti si spostavano per semplice diletto. Ricordo notti con il motorino e poi con la "Vespa 125 Primavera" (che ho ancora!) in cui vagavamo nella notte per il semplice piacere di andare, che fosse nelle mie strade di montagna o via per i lungomare o nelle stradine dell'entroterra della Liguria estiva, dove spedivo la moto con il treno.
Credo di aver già scritto della lezione di vita di mio papà: avevo nella primavera 1973 individuato l'oggetto del mio desiderio. Si trattava di un "Beta 50", che all'epoca veniva venduto ad Arnad dai fratelli Deval (uno è quel Luciano oggi, sentinella rollandiniana con licenza d'uccidere sui "social", che spesso mi insolentisce). Mio papà mi disse con chiarezza che la condizione è che non fossi rimandato a scuola: ciò avvenne e dunque mi ero rassegnato a prendermela giustamente nella giacca. Rientrati a casa dalla festa di classe e davanti a casa mia vidi a distanza lui, il mio motorino. Il vecchio Sandro, allora cinquantenne, riuscì con quel gesto generoso a farmi capire quanto l'amore dei genitori potesse supplire alla mia stupidità adolescenziale. Una lezione di quelle che non si dimenticano e che fa riflettere sui principi educativi. Per cui un mesetto fa ho letto su di un supplemento del "Corriere della Sera" un articolo che mi ha molto incuriosito del direttore del mensile "Motociclismo", Federico Aliverti, che spiega perché le due ruote non sono più l'oggetto del desiderio del nostri figli e lo posso testimoniare perché né Laurent né Eugénie - i miei figli ormai ventenni - vollero saperne di avere il motorino sia a quattordici che a sedici anni. Esordisce Aliverti: «I parcheggi davanti alle scuole oggi sono popolati di fantasmi, come uno scenario post-bellico. Moto e motorini, quando va bene, si contano sulle dita di una mano: che cosa è successo? Succede che per la prima volta dal Dopoguerra la moto non è più al centro degli interessi e delle passioni dei giovani. Negli ultimi sessant'anni tutte le generazioni si sono specchiate almeno una volta nel serbatoio di una moto. Quello in lamiera quando l'auto era inaccessibile. Quello in alluminio quando col benessere la moto diventa svago, status, libertà. Infine quello in plastica dello scooter (ma anche della moto, sigh!) fatto per affrontare città sempre più congestionate. A quanto pare è di plastica anche l'erede (e il carnefice) del motorino. Per la generazione "iGen" lo smartphone è il mezzo di trasporto che percorre tutte le strade dell'evasione, dell'emancipazione, della curiosità». Interessante il punto d'osservazione: la mobilità fisica sostituita da quella virtuale dei "social". Spunto di riflessione di una generazione che va dai digitalizzati ai nativi digitali veri e propri. Prosegue più avanti il direttore: «La moto nasce come mezzo di trasporto a basso costo. Necessario, negli Anni 50, al padre di famiglia per recarsi al cantiere o in fabbrica. Nelle città, uscite martoriate dalla guerra, sullo sfondo delle gru, la "Lambretta" e la "Vespa" comprate a cambiali sono state l'icona della speranza nel futuro. Ben presto alle due ruote guarda, con sempre crescente desiderio, la fascia di età più giovane. Sono gli anni del boom economico. Dall'America maccartista soffia un vento di libertà e di ribellione che percuote i giovani con la musica rock e irrompe nel cinema - quello con un'unica sala puzzolente di fumo e i sedili scomodi - con l'immagine di Brando, "Il Selvaggio", a cavalcioni su una "Triumph Thunderbird". Cambia tutto. E cambia velocemente. La moto, oltre che essere il primo mezzo di trasporto proprio, diventa un simbolo dell'identità giovanile. Lì si coagulano libertà, passione, disobbedienza, erotismo. L'ora X scatta a quattordici anni: con il cinquantino si fa il primo passo fuori dalla prigione. E' impellente questa voglia di libertà, di sottrarsi al controllo dei genitori. Al mondo degli adulti si invidia solo l'indipendenza e si ha fretta di conquistarla. In amore, la moto è il terzo incomodo tra lui e lei: così il più delle volte la storia finisce e Mogol scrive un capolavoro. Nel '75 il ventenne coi pantaloni a zampa e i capelli sugli occhi si dichiara a lei che ama un altro offrendo in cambio di un "sì" la cosa più cara che possiede: la "Motocicletta 10 Hp... mi costa una vita... per niente la darei"». Mi ci riconosco in pieno, così come laddove Aliverti osserva: «Mio figlio, prossimo ai quattordici anni, non ha cominciato a lavorarmi ai fianchi e nemmeno ha iniziato il conto alla rovescia dei giorni che mancano per avere il motorino. Non si tratta del salutare dissenso dal genitore che gli ha fatto respirare moto fin dalla culla. E' un fatto generazionale: anche quest'anno le richieste di patente sono calate dell'8,5 per cento. (…) Era un periodo in cui si riversavano nelle strade 700mila cinquantini sfumacchianti ogni anno (dato che ha tenuto fino ai primi anni Duemila), capitanati da frotte di "MBK Booster". Ma allora le vie erano meno frequentate, in testa avevamo poco più di una "scodella" legata in qualche modo e nel cuore c'era il sogno ben saldo della "Honda NSR 125". Oggi i cinquantini venduti sono 23mila all'anno (dato 2017), il più richiesto è il "Piaggio Liberty 4T" con tremila pezzi. Questo significa che più di mezzo milione di ragazzi sono stati inghiottiti in meno di vent'anni (anche) dalle rinnovate ansie dei loro genitori, persuasi, al pari dei figli, che al giorno d'oggi il telefonino sia una scelta irrinunciabile mentre la prima moto solo un'altra fonte di preoccupazione». Insomma meglio - forse… - la libertà data dal telefonino ormai oggetto multidisciplinare che apre alla Rete: «Lì si ritrovano, si sentono liberi. Possono viaggiare con un clic. Possono essere se stessi ma anche inventarsi. La Rete è un enorme Barbapapà che prende tutte le forme e, in cui, più di ogni cosa, si desidera piacere per non essere scartati. Chi ha inventato il like con il pollice in su o in giù è un genio del male: alimenta la voglia di affermarsi condividendo immagini, storie, racconti ma anche frustrazioni. Questa generazione nasce abituata a condividere tutto. Anche l'automobile e lo scooter. Sparisce il senso del possesso a discapito del piacere. Tutto è in sharing, forse anche le emozioni. Lo sconforto che proviamo nel vedere i parcheggi delle scuole vuoti ha stanato una verità ben più sconfortante: sui nostri ragazzi iperconnessi soffia il vento della precarietà permanente, il più grande inceneritore di sogni. Ed è normale che il primo a cadere sia stato tutto quello che ha rappresentato la moto». Confesso che, per chi ha amato il motorino e la moto, è una specie di resa, cui non so rassegnarmi.