«Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?». E' questo il titolo di un celebre quadro di Paul Gauguin (1848-1903), presentato in pubblico nel 1898 e dipinto a Tahiti dove morirà. Il quadro sottolinea l'enigma appassionante della vita e va considerato il suo testamento artistico e spirituale, sintesi perfetta della sua pittura e della sua visione del mondo. Non è semplice interpretarlo: si tratta dell'età dell'uomo, dall'infanzia alla vecchiaia, con una serie di simboli che i critici si sforzano di decriptare. L'unica cosa chiara è quella scritta che il pittore ha apposto e che ho citato all'inizio: è in fondo un interrogativo che può assumere come tutto diverse coloriture (dallo scherzoso al drammatico) e serve - qualora lo si volesse fare - a riflettere in qualche modo non solo sulla nostra vita ma su quella della nostra comunità.
Osservo sempre, riferendomi alla comunità cui appartengo, che la forza del proprio modo di essere, fatta di cultura, usi, costumi, consuetudini, pregi e difetti e via di questo passo, sta nel continui interscambio con chi ci sta attorno, che sia vicino come lontano. E tuttavia questa questione mi interessa molto per una semplice ragione e non mi spingo in questioni identitarie spinose, perché pur essendo l'identità una questione prevalentemente culturale resta inteso che ognuno la può vedere come vuole e in fondo l'identità è un'entità sempre di corsa, che corre assieme a noi, inseguendo i cambiamenti. Quel che noto - e lo faccio con dispiacere - è di come si possa diventare apolidi in casa propria. Per "apolide", dal punto di vista giuridico, si intende chi è privo di cittadinanza, per non averne mai avuta o per averla persa o per non godere, di fatto, della protezione dello Stato di cui formalmente è cittadino. Il mio è, invece, un apolide sui generis: la cittadinanza ce l'ha e gode pure di tutti i diritti, ma vive in una situazione di singolare estraneità rispetto al luogo in cui vive. E' come sospeso in uno stato di privazione: un'amnesia che finisce per renderlo estraneo al proprio territorio e alla propria comunità. Termine quest'ultimo che non a caso piaceva a Zygmunt Bauman: «La parola comunità evoca tutto ciò di cui sentiamo il bisogno e che ci manca per sentirci fiduciosi, tranquilli e sicuri di noi». Nel mondo alpino, ostile per la difficoltà della vita in montagna, questo era un principio per vivere più serenamente. Mi spiego ancora meglio: viviamo in un mondo nel quale la circolazione delle informazioni e la possibilità di acculturarsi non è mai stata così a portata di mano, mentre un tempo così non era e nel passato la nascita in certi ambienti poteva portare al peso di essere in qualche modo pregiudizialmente esclusi dagli strumenti e dalla possibilità della conoscenza. Eppure - vengo al punto - se ci guardiamo attorno ci accorgiamo di come, nel caso esemplare della piccola Valle d'Aosta ma l'osservazione ha un valore generale, ci sia un'evidente purtroppo crescente ignoranza degli elementi basilari che dovrebbero spiegarci da dove veniamo e dove siamo, presupposto per sapere, nel limite del possibile perché l'indeterminatezza dell'avvenire è vasta, dove andiamo o almeno dove vorremmo andare. Si dice che, per fare un esempio concreto, l'oblio nella comunità valdostana di nozioni di base della Storia e della Geografia locali sia colpa della scuola. Questo è certamente vero: quando i programmi erano vecchi bacucchi non c'era un bambino delle mia generazione che non fosse in grado di capire dove viviamo, dove si trovino paesi e vallate ed avesse in mente la collocazione delle principali montagne. Idem per le vicende più importanti del passato: da quella favolistica dei Salassi, alla presenza romana, al perché dei castelli e via via sino alle implicazioni della storia moderna e contemporanea. Magari solo cenni, in entrambi i casi, ma che ti davano un'infarinatura. Sperando che questo avvenisse - e per me lo era stato - anche rispetto ad alcuni fondamentali sull'ordinamento valdostano, che in qualche maniera consentissero di capire alcuni rudimenti della democrazia e dell'Autonomia. Naturalmente poi esistevano altri due aspetti rilevanti: il ruolo della famiglia nel trasferimento di nozioni utili, affidate magari all'oralità; e poi il ruolo di ciascuno di noi che per non essere un marziano piombato a casa propria poteva come può ancora facilmente oggi assumere maggior coscienza di sé. E non ci si illuda che la socialità della Rete sostituisca la comunità di cui parlavo prima, come segnala lo stesso Bauman: «La differenza tra la comunità e la rete è che tu appartieni alla comunità ma la rete appartiene a te. Puoi aggiungere amici e puoi cancellarli, controlli la gente con cui ti relazioni. La gente si sente un po' meglio perché la solitudine è la grande minaccia in quest'epoca di individualizzazione. Ma nelle reti aggiungere amici o cancellarli è così facile che non c'è bisogno di capacità sociali».