Si annoda la situazione catalana e mi pare che la stessa tensione internazionale sul caso stia scemando, malgrado gli aspetti significativi - da qualunque ottica la si veda - che la questione riveste. Esiste una certa stanchezza e - per essere brutale - la giustissima scelta di una linea pacifica sembra penalizzare i catalani: se ci fosse stata o ci fosse qualche forma di violenza, allora i riflettori sarebbero ancora accesi. In Italia, dove sui "social" si manifestava una simpatia iniziale per l'indipendenza catalana si è ora passati - chissà perché - ad una certa ostilità che confonde vittima e carnefice. Quel che è certo è che fra la strategia indipendentista costi quel che costi e la brutalità spagnola non sembra esista uno spazio di discussione e questo si aggrava con il ruolo europeo, che non ha assunto alcuna logica di mediazione. Anzi, le massime istituzioni a Bruxelles - forse con l'eccezione di alcuni deputati del Parlamento europeo - hanno parteggiato smaccatamente per Madrid in barba a tutti i discorsi sul regionalismo e la sussidiarietà, dando ad intendere che l'autodeterminazione dei popoli vale solo per chi è uscito dal colonialismo...
Nessuno indica, pur straparlandone spesso a vanvera, il federalismo come soluzione possibile. Non lo fanno i catalani, che so bene essere storicamente scettici su questa via d'uscita, puntando al distacco senza troppi compromessi. Figurarsi gli spagnoli che hanno mantenuto la faccia feroce e repressiva sin dall'inizio. Ne ha scritto giorni fa sul "Corriere della Sera" Alberto Martinelli, professore di scienza della politica con insegnamento e ruolo accademici di peso in Italia e negli Stati Uniti, con una lucidità che condivido. Ecco l'inizio: «La questione catalana non è stata affatto risolta dalle recenti elezioni che hanno visto i partiti indipendentisti ottenere la maggioranza dei seggi (70 su 135) ma non dei voti (48 per cento), con un tasso di partecipazione elevato (quasi l'82 per cento). La soluzione più ragionevole dello stallo tra Governo spagnolo e Generalitat catalana sarebbe una riforma costituzionale in senso federale che trasformi l'ampia autonomia culturale già esistente in un assetto istituzionale autenticamente federale. Potrebbe evitare la pericolosa radicalizzazione dell'indipendentismo catalano; favorire un'evoluzione in senso federalista dell'Unione europea in un processo di reciproco rafforzamento; offrire ad altri movimenti indipendentisti europei un'alternativa alla secessione, disinnescando potenziali crisi. Ma è difficile che si creino oggi in Spagna condizioni favorevoli a una simile riforma. La questione catalana è solo l'esempio più clamoroso della diffusa galassia dei movimenti indipendentisti sub-nazionali, che sono a loro volta parte di un processo più generale: l'impetuosa ripresa del nazionalismo in Europa. Partiti nazionalisti e partiti indipendentisti sub-nazionali, pur combattendosi, hanno molto in comune; i secondi vogliono secedere da uno stato nazionale, ma per formare un'entità politica dello stesso tipo, di dimensioni più ridotte, adottando la stessa ideologia nazionalistica». Giustissimo: solo il federalismo evita il nazionalismo giacobino, che si sa dove comincia ma non si sa dove arriva o forse lo si sa, pensando ai fascismi - compreso quello spagnolo - ed agli orrori del nazismo. Prosegue Martinelli, sciorinando situazioni che qualunque federalista osserva con attenzione: «Gli esempi sono numerosi: catalani, baschi, irlandesi cattolici dell'Ulster, fiamminghi, scozzesi. Il fenomeno delle nuove nazioni e dei nuovi nazionalismi e indipendentismi sub-nazionali è ancor più evidente nell'Est europeo, dove a seguito della dissoluzione dell'Urss e della sua sfera di influenza sono nati nuovi stati sovrani ed esplose nuove rivendicazioni etnico-nazionalistiche all'interno di alcuni di essi (dalla Cecenia all'Abkhazia, dalla Transnistria al Kossovo). In realtà il nazionalismo potrebbe essere anche più diffuso, perché le condizioni favorevoli allo sviluppo di rivendicazioni indipendentiste sono molto più numerose delle realtà in cui si manifestano. La coincidenza tra stato e nazione non è data una volta per tutte, ma cambia nel tempo. La parte dell'entità politica più ampia che ha rivendicato e ottenuto la sovranità, è a sua volta esposta a rivendicazioni dello stesso tipo da parte di porzioni del proprio territorio. L'indipendentismo sub-nazionale assume volti assai diversi, ma ha radici comuni nelle grandi trasformazioni economiche e politiche degli ultimi decenni del '900: da un lato, l'insieme dei processi che definiamo globalizzazione e, dall'altro, la fine dell'Urss e della Guerra fredda. Gli stati nazionali sono sottoposti a una duplice pressione: dall'alto, da processi di interdipendenza globale, dal basso, da nuove spinte centrifughe e rivendicazioni di autonomia. Lo spaesamento creato dai flussi globali produce un desiderio di radicamento territoriale, contro il cosmopolitismo delle metropoli si riaffermano identità regionali e locali di piccole città e campagne». Analisi perfetta, che evoca dunque rischiosi fantasmi nel proseguo: «I partiti e i movimenti nazional-populisti contemporanei esprimono un forte appello identitario e solidaristico contro l'erosione della sovranità nazionale causata dalla globalizzazione; vogliono potenziare gli attributi fondamentali della statualità per governare le conseguenze della crisi (in particolare nei Paesi del Sud Europa) e consolidare i confini per contrastare la pressione migratoria (in particolare nel Nord Europa). Esiste tuttavia una divergenza tra partiti nazionalisti e indipendentisti: i primi, euro-scettici o eurofobici, vogliono riappropriarsi di porzioni di sovranità cedute all'Ue nell'illusione di poter meglio gestire i problemi globali, mentre i secondi (come catalani e scozzesi) vogliono staccarsi dai loro stati rinvigorendo il legame con l'Unione, convinti che i vantaggi superino i costi. Il nazionalismo cresce in Europa, ma in particolare nei Paesi post-comunisti dell'Europa orientale (dentro e fuori l'Ue), dove l'impulso dato dalla globalizzazione si unisce a un secondo fondamentale ordine di cause: la fine della guerra fredda e la dissoluzione della sfera di influenza sovietica. L'implosione dell'Unione Sovietica ha scongelato conflitti in precedenza assorbiti dallo scontro tra Usa e Urss, che si intersecano con le difficoltà del cambiamento di regime. Si affermano così tre tipi di nazionalismo: i "nazionalismi nazionalizzanti" degli stati di recente indipendenza o riconfigurazione, che rivendicano lo status di "legittimo proprietario" dello stato da parte della nazionalità dominante rispetto alla cittadinanza in generale (come nelle Repubbliche baltiche o in Georgia); i nazionalismi trans-frontalieri o "madrepatrie nazionali esterne", che affermano il diritto/dovere di stati come la Russia di difendere i diritti dei membri della propria comunità etnico-nazionale nei Paesi in cui è divenuta minoranza; i nazionalismi delle minoranze nazionali che aspirano a una più ampia autonomia, o addirittura all'indipendenza, e che si trovano spesso presi in mezzo all'antagonismo tra i due precedenti tipi. Si tratta di conflitti in atto e potenziali destinati a durare a lungo, se non si realizzeranno adeguate riforme costituzionali di natura federalista». Sono parole importanti, perché quest'ultimo è il solco dell'autonomismo federalista di quei valdostani che ci credono davvero e non lo fanno per posa o perché ci siano elezioni in vista.