Leggevo su "Libération" questi pensieri del filosofo francese Edgard Morin, classe 1921: «Je pense que la vie humaine est polarisée entre prose et poésie. Les états prosaïques sont ceux de l'obligation, de la contrainte, de l'ennui. Les états poétiques sont ceux de l'épanouissement du JE dans le NOUS, qui comporte affection, amour, communion, éventuellement exaltation. Les états poétiques sont propices aux bonheurs et au bonheur et peuvent les susciter comme le bonheur peut les susciter. Je distingue les moments de bonheur fugitifs: un beau visage, un paysage, une belle musique, un vol d'hirondelles, la divagation d'un papillon. Les périodes de bonheur plus ou moins durables et qui nécessitent un certain nombre de conditions extérieures et intérieures, qui sont justement d'épanouissement de soi dans une communion. Ils peuvent être d’intensité, comme dans l'acte amoureux, la participation à une fête. Ils peuvent être de sérénité et de paix intérieure. L'idéal serait de combiner intensité et sérénité».
Il bello dei grandi vecchi sta in questo spessore di una vita vissuta, che consente - nella fortuna di averla avuta - di porsi interrogativi e di piantare qualche paletto, che diventa un punto di riferimento per qualche riflessione. Oppure, per pensarci, ci vuole la leggerezza dei poeti, come Jacques Prévert, quando dice e basta un solo verso: «J'ai reconnu le bonheur au bruit qu'il a fait en partant». Più complesso Hermann Hesse, quando scrive della Felicità: «Fin quando dai la caccia alla felicità, non sei maturo per essere felice, anche se quello che più ami è già tuo. Fin quando ti lamenti del perduto ed hai solo mete e nessuna quiete, non conosci ancora cos'è pace. Solo quando rinunci ad ogni desiderio e non conosci né meta né brama e non chiami per nome la felicità, Allora le onde dell'accadere non ti raggiungono più e il tuo cuore e la tua anima hanno pace».
Guardavo una pagina intera de "La Stampa", che dice quanto gli italiani - dando per buono il sondaggio di Nicola Piepoli - siano felici: solo due su dieci dicono, al contrario appunto, di essere infelici. La felicità così come espressa sembra essere frutto di una sfera intima e non certo pubblica. Ricordo che, per una serie di ragioni storiche, la "Dichiarazione di Indipendenza americana" del 4 luglio 1776 diceva: «A tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità». Sarà retorica e c'è pure la zampino della visione massonica del tempo, ma a me questa logica di fare della Felicità uno scopo da raggiungere non sembra così peregrina, anche se fra il dire e il fare... Scriveva giorni fa il Direttore del quotidiano "Alto Adige e Trentino", Alberto Faustini, in un suo arguto editoriale: «Da Bankitalia, incredibile ma vero, arrivano buone notizie: la crescita viaggia verso l'1,4 per cento e nel 2019 la crisi - stando alle analisi degli esperti di via Nazionale - diventerà finalmente un ricordo: catastrofico, sia chiaro. Perché questi anni ci hanno profondamente (non definitivamente, spero) cambiati. Il problema dell'Italia è infatti sempre il medesimo, purtroppo: il deficit di speranza. C'è una cappa pesante e scura che pesa da ormai troppo tempo sul nostro Paese: disoccupazione giovanile in continua crescita, donne che non trovano lavoro e che per trovarlo o mantenerlo spesso devono avere il compromesso per quotidiano compagno di viaggio, assenza di ottimismo, precarietà, nuove (e crescenti) povertà, conti che non tornano. Nelle tasche delle famiglie e in quelle del Paese: con un debito da record, una zavorra ormai mostruosa che ogni governo attribuisce sempre a quello che l'ha preceduto. Nel giro di un paio d'anni il Pil - stando sempre al bollettino di luglio della Banca d'Italia, documento profondamente diverso da quelli che l’hanno preceduto - tornerà quello del 2011 e forse ci dimenticheremo parole che hanno inondato il nostro vocabolario in questa stagione che sembra ancora infinita: spread, debito sovrano, bolle speculative... Le previsioni sono rosa in ogni comparto. E persino Bruxelles ci dà credito, anche alla luce di dati internazionali che sembrano confermare quella che è ormai più che una tendenza. Il linguaggio della statistica non è però ancora quello della realtà: società ed economia viaggiano a velocità diverse. Il Nord - e qui da noi i segnali sono per fortuna confortanti - riparte, ma il Sud continua ad arrancare e gli stipendi restano fermi. Per questo, più che di Pil, come avrebbe detto Bob Kennedy, è ora e tempo di parlare di Pif (prodotto interno di felicità), concentrandosi su un deficit di speranza che ha contaminato chi, a cominciare dai nostri figli, non crede più in niente e in nessuno. Basta vedere quanta gente va a votare. E' su questo che una classe politica concentrata sui litigi interni ed esterni dovrebbe lavorare». Questo "Pif" dovrebbe essere ben inteso anche in Valle d'Aosta.