Macron ha vinto, viva Macron. In fondo l'analisi potrebbe finire qui. Ma in questo mio ultimo passaggio sulle Presidenziali francesi 2017 - poi parlerò d'altro! - vorrei vedere l'altra faccia della medaglia: la sconfitta. Marine Le Pen - che avrà il fiato sul collo della nipotina Marion Marechal Le Pen che decide ora di uscire di scena per poi esserci in futuro - ne esce peggio del previsto, ma porta a casa più di dieci milioni e mezzo di voti e quel 33,9 per cento che surclassa il papà Jean-Marie, che nel 2002 si fermò al ballottaggio al diciassette per cento. Ora le Legislative diranno di più sui nuovi equilibri politici francesi, ma qualcosa su questa saga dei Le Pen e sullo score notevole dell'estrema francese va detta. Sapendo che in Italia, accanto agli eredi del neofascismo di diversa fatta, spicca la fratellanza politica del leader leghista Matteo Salvini, che resterà alla storia per avere traghettato la Lega su di un terreno che mai avrei pensato potessero calcare.
Sulla marea nera, che non ce l'ha fatta di Le Pen, c'è stato un commento del filosofo Paolo Flores D'Arcais, di cui condivido raramente le posizioni, ma questa volta è uno dei pochi che ha detto "pane al pane" e "vino al vino". Così scrive con franchezza: «L'orrore è stato evitato, il candidato fascista non salirà i gradini dell'Eliseo. Un grande sospiro di sollievo dunque, ma da entusiasmarsi c'è poco. Se nel cuore storico della democrazia europea, la Francia di "liberté, égalité, fraternité" che deve la legittimità delle sue istituzioni ai sanculotti del 1789 e ai resistenti del maquis e del governo in esilio contro il tradimento di Vichy, il candidato di un partito intasato di negazionisti in nostalgia di Petain e di cattolici vandeani, prende un terzo dei consensi, sarebbe più serio mantenere un certo timore, oltre che qualche oncia di vergogna. E capire come sia stato possibile arrivare a tanto, andando alle radici per poter re-agire. Prima che sia troppo tardi». Poi affonda la lama: «Lo dice la noncuranza di massa (e anche di élite) che ha minimizzato o negato, in realtà rimosso, il carattere fascista del partito Fn, nella continuità tra Le Pen padre, figlia e nipotina Marion. E che ancor più lo farà, ora che "Marine la Patriota" cercherà di accreditarsi tale addirittura "rifondando" con nuovo nome e nuovi apporti il Fn. Noncuranza che si lascia imbambolare da qualche frase ad effetto, belletto e botulino ideologici, e sarebbe il meno, ma che si radica soprattutto per affatturazione della sirena sociale e collasso dello spessore storico, massime nella generazioni più giovani. Circolano massicciamente posizioni del tipo "il nazi-fascismo - salvo frange minoritarie di nostalgiche macchiette - è un fenomeno del secolo scorso", oggi esistono solo "destre sociali", "il revisionismo storico è una posizione culturale, all'operaio che vede ridursi i suoi diritti non importa niente di cosa Le Pen pensi di Giulio Cesare"». Poi il passaggio che andrebbe letto da chi, alla fine, parla di "fascismi buoni": «Destra sociale? I fascismi si sono sempre dichiarati sociali, dalla parte dei lavoratori e dei disoccupati. Hitler aveva chiamato il suo partito "nazional-socialista" (nazismo è la contrazione). Abbindolate le masse, hanno sistematicamente e regolarmente distrutto ogni organizzazione di lavoratori, intrecciato valzer e amorosi sensi con i più biechi poteri finanziari e industriali, distrutto ogni possibilità legale di lotta per i non privilegiati». E ancora: «Ma ogni generazione sente il prepotente bisogno di ripetere gli errori delle generazioni precedenti. Anche Mussolini, e Hitler, e i loro scherani, a molte personalità e persone comuni dell'epoca apparivano delle "macchiette": in pochi anni hanno ridotto l'Europa in macerie e fame. Oggi queste consapevolezza storica minima si è perduta, e il sonno della memoria, come quello della ragione, produce mostri. Purtroppo, in Francia, come in Italia, come in Europa tutta, si sconta un peccato originale, non aver dato vita nel dopoguerra alla necessaria epurazione antifascista in tutti gli apparati dello Stato (ma anche nel giornalismo e nella cultura). Non aver realizzato quella damnatio memoriæ tassativamente ineludibile, che non garantisce contro ritorni di fascismo (la pulsione di servitù volontaria possiede circuiti neuronal-ormonali più antichi e radicati di quelli illuministico-democratici, ahimè), ma ne riduce le probabilità per il possibile. Invece, nei decenni, con lenta ma infine inesorabile crescita, si è tollerato che partiti e movimenti fascisti si ricostruissero, si legittimassero per partecipazione elettorale, divenissero per mitridatizzazione parte del panorama ordinario del nostro habitat politico e sociale». Fine delle lunghe citazioni. Parole dure, ma che disegnano la responsabilità dell'insieme di fattori che porta al peggio: l'oblio.